Per chi ha iniziato a seguire il basket negli anni 2000 e, quindi, non ha avuto la fortuna di poter assistere alle imprese di Michael Jordan, il #24 in maglia Los Angeles Lakers è probabilmente quanto di più vicino ci sia mai stato a lui cestisticamente parlando. Kobe Bryant è uno di quei giocatori che ti pone di fronte a una scelta; puoi decidere di amarlo perché effettivamente, uno così, nasce una volta ogni decennio forse, e non è soltanto una questione di talento. Oppure puoi odiarlo per due motivi: per rivalità sportiva – capiranno benissimo i tifosi dei Boston Celtics – o per essere stato un accentratore tale da aver oscurato completamente gli altri quattro giocatori in campo con la sua stessa canotta. Il che, tendenzialmente, non è mai un bene per un leader.
Per chi come me, però, lo sport è sempre stato più un qualcosa di psicologico, qualcosa da interpretare con la mente piuttosto che una mera gara fisica tra super atleti, quello sguardo rimarrà impresso tutta la vita. “Lo sguardo delle finali”, per la precisione, Julio Velasco lo chiamerebbe “occhio della tigre”: poco cambia, il risultato è sempre lo stesso. Una trance agonistica tale da sconvolgere il tuo corpo, da prendere i propri limiti e spazzarli via completamente. In questo Kobe Bryant non aveva alcun tipo di rivale e ad avallare questa mia personalissima tesi ci sono decine e decine di tiri allo scadere realizzati dal #24, canestri che valevano ben più di due o tre punti. Valevano la differenza tra una vittoria e una sconfitta, tra il rispetto e il disonore di non essere riuscito a trascinare i propri compagni al trionfo: per uno che si è sempre nutrito di basket come Kobe Bryant, in pratica, quei tiri erano la differenza tra vivere e morire.
Una carriera intera ai Los Angeles Lakers è probabilmente quanto di più bello possa accadere per un giovane afroamericano che decide di entrare nell’NBA. Una carriera in discesa, direte voi, ed effettivamente è stato così sino al 2004, anno in cui un certo Shaquille O’Neal ha fatto le valigie in direzione Miami: facile giocare col centro più dominante degli ultimi vent’anni al proprio fianco, tutt’altra cosa invece vincere da leader della squadra. Bryant ha aspettato anni prima di avere attorno a sé una squadra in grado di arrivare sino in fondo, passando anche momenti molto bui come la sconfitta contro i Celtics nel 2008: quella, probabilmente, ha generato la rabbia e la cattiveria che ha portato, nei due anni successivi, ad altrettanti titoli in bacheca per i Lakers. Decisivo per carisma e capacità di guidare i compagni anche nelle giornate storte al tiro, come quella gara 7 nel 2010 contro i Celtics (6/24 dal campo).
Il ritiro di un giocatore del genere non può non smuovere la coscienza di quelli che in NBA ci sono entrati col mito di diventare come Kobe. Ed è normale sia così. Quando però ti accorgi che gli attestati di stima provengono quasi più da quelli a cui Bryant ha fatto male – sportivamente – in carriera, allora è altrettanto evidente che si è di fronte alla storia del basket. E davanti alla storia, per rispetto, si può soltanto alzarsi in piedi e applaudire, indipendentemente dal colore della canotta che s’indossa.