Ma com’è strano senza Meo
Ma quanto è strana Sassari senza Meo Sacchetti? Parecchio, sinceramente: il percorso dalla A2 al tricolore non si dimentica e tra le certezze di questi anni – insieme al nucleo degli italiani e al pubblico del PalaSerradimigni – la guida tecnica è stata l’emblema della continuità storica e della crescita della società.
Base allargata (fuori Sassari, ben oltre lo zoccolo duro di chi praticava pallacanestro in Sardegna e abbinava il tifo alla Dinamo al sostegno a una delle grandi del nord Italia), cambiati proprietà, ambizioni e desideri, Meo in panchina ti faceva capire che no, non stati sognando. Che era tutto vero: lo stesso uomo dai playoff per la massima serie a quelli per lo scudetto, dalla cadetteria alle avventure in Eurocup ed Eurolega.
Crescita graduale, non senza rivoluzioni di roster, valorizzazione (o bocciatura) di cestisti in Sardegna in cerca di rinascita o consacrazione, piccole delusioni ma anche gioie impensabili dieci anni fa; il tutto in un’Italia del basket non sempre tenera con il progetto di Sardara, e con la pallacanestro di Sacchetti: gioco troppo offensivo, poca cultura della difesa, pochissimi italiani.
Divisi i social network, specie nell’ultima corsa scudetto: a queste critiche replicava l’intensità difensiva della squadra nelle serie con Milano, o il concetto che di italiani adatti a stare in quintetto nel gioco di Sassari ne esistono pochi e costano parecchio.
Smaltita la sbornia scudetto, la società s’è messa a lavorare per poter restare competitiva. Non confermate le stelle tranne Logan, salutato Vanuzzo, sono arrivati altri giocatori interessanti ma in cerca d’autore; nel giudizio di molti addetti ai lavori, una bella campagna acquisti: in pole position davanti persino a Milano a detta di alcuni, a patto di oliare i meccanismi e trovare presto le giuste motivazioni.
Qui qualcosa è andato storto, se è vero che sono arrivate sconfitte inaspettate (ma la classifica di Serie A è molto corta), che l’Eurolega è una montagna ancora troppo alta per i campioni d’Italia (ma forse lo è per il nostro basket in generale) e che spesso il linguaggio del corpo dei giocatori ha lasciato perplessi. Aggiungici le strigliate presidenziali su Facebook, le conferenze stampa con l’amaro in bocca, un po’ di frustrazione per un pubblico ora abituato più che bene. Perché anche lo scorso anno fu un autunno di transizione ma c’era almeno la sensazione che qualcosa si stesse muovendo, che gli schiaffi europei fossero educativi.
Non come stavolta, evidentemente, e la società ha preso la decisione delle decisioni: via Sacchetti, via l’eroe del tricolore, scossa a squadra, organico e ambiente tutto. Che ha reagito male, anzi malissimo: perplessità, talvolta insulti, solidarietà massima al coach. Che in Sardegna ci lascia un pezzo di cuore, che della Dinamo rimarrà sempre il grande totem, ma il cui rapporto con Sardara si era evidentemente consumato.
E adesso? La squadra è in ripresa, ha demolito Pesaro ed è uscita a testa alta dal testa-coda col gigante CSKA in terra di Russia: a Marco Calvani l’augurio di buon lavoro con serenità, senza bruciare le tappe, a partire dai prossimi impegni di campionato e coppa. Vietato inseguire il fantasma di un coach leggendario e inarrivabile. La Dinamo di Sacchetti diventi la Dinamo di Calvani: all’isola piace innamorarsi degli allenatori, e trasformarli in sardi d’adozione.