La giornata di ieri ci ha proposto un menu calcistico ricchissimo: tra Juventus-Milan, Schalke 04-Bayern Monaco, Manchester City-Liverpool e Real Madrid-Barcellona c’era veramente di che accendere almeno un paio di schermi e farsi un bel pomeriggio non-stop sul divano a ingozzarsi di pallone. Tuttavia, per chi ha voluto scegliere di vedere una sola partita o di guardarne una per volta (perché tante di queste erano in concomitanza, integralmente o parzialmente) la decisione – per quanto difficile – è quasi sempre caduta sul Clásico iberico, probabilmente la partita di un qualsiasi campionato di calcio nazionale più sentita (anche perché sponsorizzata, marketingizzata, reclamizzata e sovraesposta) e vista con interesse del mondo.
Tanti sono i motivi per cui l’incrocio tra i Blancos e i catalani ha ottenuto questo primato: spesso abbonda la retorica sullo scontro tra i mondi diversi che Real e Barça rappresentano ma, forse più semplicemente, in questo momento il Clásico è sostanzialmente la gara in cui si vedono contemporaneamente più campioni in campo. Anzi, più che campioni, direttamente alcuni dei migliori del mondo in assoluto nel loro ruolo. Del resto, in quale altro match si può sperare di guardare contemporaneamente i vari Messi, Ronaldo, James Rodríguez, Neymar, Suárez, Iniesta, Modrić, Kroos, Bale, Rakitić, Dani Alves o Marcelo (tutti in ordine casuale, ovviamente)? La risposta è ovvia: nessuno.
Com’è andata a finire la partita, peraltro, è presto detto e ormai forse solo i sassi non lo sanno: i blaugrana hanno espugnato il Bernabéu con un umiliante 4-0 sulla compagine di Benítez, le cui fragilità sono emerse tutte contemporaneamente e hanno consentito ai ragazzi di Luis Enrique di infliggere agli storici rivali una lezione che faticheranno parecchio a scrollarsi di dosso. Certo, l’attuale Clásico non ha più quell’intensità pure un po’ malata degli anni in cui si sfidavano Guardiola e Mourinho, capaci di dar vita a confronti spaventosi e somiglianti a feroci partite di scacchi arricchite da una tensione vischiosa più tipica della roulette russa in un clima generale da “vale tutto”. Allo stesso modo, la partita di ieri ha anche fatto definitivamente piazza pulita dell’immagine di placida potenza che dava il Madrid di Ancelotti o del Barcellona in transizione incerta tra il tiki-taka di ieri e l’ignoto di domani, generando invece una sfida tatticamente non ineccepibile ma vibrante, tesa al punto giusto e molto umana, dove – nonostante il risultato possa sembrare contraddittorio rispetto a questa sensazione – finalmente è sembrata una semplice partita tra giganteschi giocatori di calcio invece che tra mostri incredibili in stile manga giapponese programmati per vincere o morire (scusa, Cristiano. Ma non solo tu appartieni alla categoria).
Questo contesto ha avuto la sua parte nel favorire il Barça di Luis Enrique, ormai completamente libero dall’ossessione trigonometrica del filosofico Pep e perfettamente a suo agio nel suo nuovo sistema-caos paradossale dove la confusione – in realtà – è diventata una delle forze di questa Invencible Armada a tinte blaugrana, una linfa vitale da cui traggono nutrimento le sue tante stelle per splendere singolarmente, illuminare collettivamente chi, dei compagni, non è al loro livello e – soprattutto – dialogare tra loro, consapevoli di parlare la stessa lingua (ossia quella propria dell’altissimo fútbol che sanno esprimere quando giocano tutti al massimo). Per converso, il clima della sfida ha invece penalizzato il Real di Benítez, faticosamente arrivato a una parziale quadratura del cerchio grazie a un rigido sistema quasi militaresco che prevedeva un ampio utilizzo dell’equilibratore Casemiro, rimasto in panchina per volontà – si dice – tanto popolare, quanto presidenziale poiché il profilo tecnico del brasiliano mal si concilia con le aspirazioni da calcio-champagne della Casa Blanca. Il professor Rafa ha quindi dovuto chinare la testa al diktat dirigenziale e perdere malamente una partita che, probabilmente, lui stesso avrebbe voluto giocare in tutt’altra maniera ma a cui non è oggettivamente mancato lo spettacolo anche dalla parte dei suoi, nella quale le Merengues avrebbero potuto trovare una sorte più benigna e, con un po’ di precisione in più, risparmiarsi, se non la sconfitta, l’umiliante passivo finale.
La nostra Serie A, a questo spettacolo iberico di stelle, dribblomani e prodigi no-look, ha risposto con un umilissimo Juventus-Milan che ha evidenziato una volta di più lo scarto che divide il nostro paese calcistico da quelli attualmente più avanzati, perlomeno a livello di sfide tra top club. Una volta, peraltro neanche troppi anni fa come tutti sanno, anche il nostro campionato poteva permettersi incroci tra squadre strapiene di fenomeni e, se per lo spettacolo inteso nel senso di “tanti gol” è sempre stato meglio rivolgersi altrove rispetto alla Serie A (ma non sempre, comunque), per ammirare un calcio d’altissimo grado non si poteva prescindere dal torneo nazionale tricolore. Anche perché, a differenza per esempio della Liga, da noi c’era ben più di un solo classico, tante gare tra compagini ambiziose e dotate di un grande potenziale tecnico (le ormai favoleggiate sette sorelle che, come vulgata vuole, “non esistono più”, un po’ come i campi e i prati attorno a Milano di cui cantava Celentano ne Il Ragazzo della Via Gluck).
Oggi, invece, i nostri big-match (di cui Juve-Milan di ieri è stata una fedelissima cartina tornasole) sono soprattutto meno ricchi di campioni: certo, ci sono ancora tanti giocatori decisamente forti, ma il livello globale non è più così alto e qui, prima ancora che in tutto il resto, si nota la differenza. Ma non solo: pure il livello complessivo degli allenatori, sempre più legati ai risultati che alle loro idee di gioco, sembra star calando. Attenzione, questo non vuole essere un peana nostalgico e malcelatamente invidioso dello splendore attuale di altri campionati esteri ma semplicemente una constatazione: sforzarsi di paragonare tra loro le partite tra le squadre più titolate d’Italia con quelle che giocano le big d’Europa è ormai diventato un esercizio decisamente sterile, noi non respiriamo più l’aria pura che si trova a certe quote, non costituiamo più un metro di paragone.
La povertà dell’anticipo dello Juventus Stadium di ieri sera, più che di palle-gol o azioni clamorose, sta proprio nella poca intelligenza calcistica derivante dal talento dei singoli messa in campo dalle contendenti e non supportata a dovere da un accorto impianto di gioco, attualmente una chimera sia per Allegri, sia per Mihajlović. Infatti non è solo per la pochezza individuale che ieri sera si son visti così tanti errori banali ma anche per l’apparente mancanza di un piano articolato da ambedue le parti: un tempo, oltre ai campioni in campo, sembravano esserci in panchina dei cervelli in grado di dar vita a battaglie magari poco appariscenti ma accanitissime. Oggi la lotta si è ridotta allo svolgere al meno peggio il compitino, sperando di vincere grazie agli errori dell’avversario. Certo, grazie al Cielo ci sono state anche partite come Napoli-Fiorentina, ma lo show di ieri sera tra Juventus e Milan, pur sempre i club più titolati del pallone tricolore, non è stato una pubblicità particolarmente efficace (a eccezione dell’azione del gol bianconero, unico momento in cui si sono viste tre o quattro singoli gesti tecnici belli e funzionali in successione e non a caso).
Date queste premesse, il succo è semplice: se si vuole risalire e porre delle solide basi affinché si riesca a tornare laddove fino a una decina d’anni fa stavamo quasi sempre, la prima cosa da fare è accettare di non essere allo stesso livello di altri perché il confronto è ormai abitualmente impari, magari anche senza ossessionarci col ranking UEFA. Punto.
Altrimenti continuiamo pure a godere di un sombrero di Pogba, di una punizione di Pjanić, di un controllo al volo di Dybala, di un dribbling di Felipe Anderson o di un’invenzione di Jovetić finché ce li potremo permettere, cullandoci nella nostra effimera illusione che, prima o poi e più o meno dal nulla, non solo qualcuno di questi deflagri e diventi uno dei migliori al mondo ma pure decida di rimanere in Italia per sempre in base a non si sa bene cosa. Sfruttiamo invece quest’inferiorità odierna per tornare a pensare calcio, al di là dei tre punti in palio ogni domenica.
Visto che stiamo parlando di un confronto inevitabilmente perdente, cerchiamo di far sì che lo sia a livello economico, di talento, persino di sistema… Ma almeno non di idee.