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La politica, lo sport e il buon odore dei soldi

Difficile, se non impossibile, farsi venire in mente, nel corso di questi ultimi giorni, qualcosa di intelligente da dire, scrivere, proporre, foss’anche dalle trascurabili colonne di un trascurabile (col massimo rispetto dei prodi compagni di ventura)  giornale online come il presente. E, anzi: troppi fatti (quelle “cose” che ci illudiamo di considerare alla stregua di presenze oggettive/oggettuali, per giunta separabili dalle interpretazioni percettive), troppi corpi (vivi, morti, prossimi, remoti), troppe immagini (da qualsivoglia supporto, replicate e potenziate all’infinito in una vertiginosa  mise en abyme), ma, soprattutto, troppe parole. Troppe. Esorbitanti. Coscienziose (poche). In libertà (la maggior parte).

Tutti, o quasi, saputisaputissimi, in grado di decriptare quel dispositivo al massacro che è la (supposta) realtà, le sue pieghe sfuggenti, nello scaraventare il petto in fuori, a mo’ di galli (anzi, no: polli, rigorosamente d’allevamento), per vivere, foss’anche al riparo di rassicuranti display (non a caso, in italiano, schermi) che veicolano la quasi totalità della comunicazione contemporanea. Proviamo a chiudere occhi e orecchie, schermarci, appunto, e parlare di altro, di sport. Come se, davvero, esistesse una dimensione altra, estranea a ciò che oggi, e solo oggi (o ieri, che è la stessa cosa), vediamo come orrore, delitto e morte. Perché questi agenti, adesso, sembrano ora toccarci e, dunque, nella corsa alla slogatura della banalità, della formuletta buona al consenso istantaneo da socialità polverizzata, siamo tutti parigini. Senza però mai essersi sentiti, prima, siriani, curdi, kenyoti, nigeriani, somali, russi e aggiungete voi la nazionalità che credete. Solidarietà a tempo, coi nostri, o quelli che ci fanno creder tali, contro loro, o quelli che ci fanno creder tali.

Eppure non è vero che lo sport non c’entra, non è vero che qui non si parla di politica, come ammonivano un tempo i cartelli di alcuni esercizi pubblici: ipotizzarlo, o illudersi che sia così, è già di per sé opzione politica, scelta netta, ancorché dettata da parziale inconsapevolezza. E se, da un lato, lo sport c’entra eccome, in quanto ideale palcoscenico per eclatanti gesti da imprimere nel dagherrotipo dell’immaginario collettivo, allora si capisce bene che, no, non è così semplice volger l’occhio altrove, immaginando, postulando che esista, un altrove. Non solo: se la minaccia, l’idea (teorica) d’un atto sconsiderato riesce a far rinviare Germania-Olanda, allora non ci sono marsigliesi in coro, irragionevoli dichiarazioni belliche, ridicoli moti d’orgoglio che tengano, né pastori belgi poliziotto (il non plus ultra della svergognatezza di un’informazione senza coscienza né buon gusto) a intenerire i cuoricini dei lettori.

Lo sport c’entra eccome, anche in altro senso, ma o non lo si scrive o lo si scrive pochino, con poca o nulla informazione, ché il danaro, si dice, ha un buon odore, ed evidentemente rifornire di armi da una parte e di palcoscenici esclusivi dall’altra è sempre un buon modo per far girare i dané. Quanti peana si son letti, e dunque scritti, contro gli sceicchi che, non da ieri, stanno acquistando a peso d’oro club, competizioni e simboli dello sport europeo e non solo? Zero, o giù di li. Eppure, il Qatar possiede, de facto, il Paris Saint-Germain, finanzia il Barcellona, rappresenta, dunque, uno degli assi più solidi su cui poggiano tra le principali realtà europee.

Soluzione? Non chiedetela a noi. L’unica idea che ci siamo fatti è che, di certo, il problema non consiste nel migrante con cui abbiamo a che fare per strada, come vicino di casa o, addirittura, collega di lavoro. Siamo, tutti, comparse di un film di cui ignoriamo non tanto la trama, ma pure i volti dei protagonisti. Sabato, però, c’è il Clásico (rigorosamente blindato) e riprende la Serie A: meno male.