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È dura, durissima dovere scrivere del nostro compleanno, con negli occhi ancora le immagini dello Stade de France pieno di tifosi sul prato, increduli e preoccupati, costretti a restare sul prato per evitare confusioni al deflusso degli spettatori, e l’eventualità di nuove esplosioni.

È difficile parlare di tolleranza, di professionalità, e anche proprio di informazione. È altrettanto difficile sottrarsi al compito, perché attentati di questo genere coinvolgono tutte le componenti della notiziabilità: hanno un forte impatto sulla nazione (anzi: sulle nazioni), hanno coinvolto (e stravolto) moltissime persone, hanno rilevanza per quanto riguarda il futuro (ci sarà una reazione, resta solo da capire quale e quanto presto), infine hanno riguardato – pur se soltanto di striscio – anche persone importanti (penso al presidente francese e al ministro degli esteri tedesco, ma anche direttamente ai calciatori tedeschi rimasti nello stadio tutta la notte).

Patrice Evra che avanza sulla sinistra, poi un’esplosione, il difensore si ferma e la passa indietro. Dal botto che poteva essere quasi concepibile (un petardo in uno stadio: quanti ne abbiamo visti?), al crescendo di notizie che si accavallano per tutta la notte.

Quindi per me, per noi, questi criteri stavolta ci sono tutti. Impatto nell’immaginario collettivo, vicinanza (politica e geografica), implicazioni future, rilevanza degli attori coinvolti. Tanti giovani (come noi), e anche tanti appassionati di sport. Dal massacro di Monaco, nel 1972, lo sport è diventato sempre più una vetrina. E c’è anche qualcosa di beffardo, nel pensare ai nostri “disastri” nazionali. Violenza negli stadi, politicizzazione del tifo, Genny ’a carogna: ci sembrano la cosa più importante, in realtà sono nulla.

Per la seconda volta in meno di un anno, Parigi è sotto attacco; se colpendo Charlie Hebdo l’obiettivo era sembrato la libertà d’informazione, poi tutto si era spento. Si era polemizzato poi sul ruolo del giornale, su quanto se la fossero cercata, se così si può mai dire per degli omicidi. Mi chiedo come possano essersela chiamata i ragazzi che assistevano al concerto degli Eagles of Death Metal, al Bataclan.

E quindi, adesso, noi.

Noi che non siamo grandi – non ancora, perlomeno. Ma siamo tanti: in crescita. Noi che, alla fin fine, siamo dei dopolavoristi, guidati dalla passione più che dal calcolo. Dalla voglia di fare, di creare. Di costruirci come gruppo, unito da una certa idea di informazione. Senza mai promettere niente che non siamo disposti a (cercare di) mantenere.

Con i nostri limiti (li abbiamo tutti, anche i più insospettabili), e le nostre potenzialità. Ci tengo a dirlo: una delle cose che mi rende più orgoglioso, in redazione, è la grande concentrazione di talento che siamo riusciti a collezionare. Uno di quegli eventi che può accadere, ma che nessuno può programmare.

Quattro anni di una vita che si vorrebbe eterna (questo è l’obiettivo di chi vuole fare informazione, e in generale anche di chi fa impresa). Un piccolo spazio di tempo, per metterci in mezzo alla notizia. Quando lo sport è sport, e quando lo sport diventa geopolitica, fanatismo, vetrina dell’indicibile.

Quattro anni sono un tempo ragionevole per crescere e trovare stabilità nel camminare; sono anche il tempo di maturare, se non si vuole essere marci. O se non si vuole stare a marcire (no, non è la stessa cosa). Siamo un gruppo aperto, con tante persone, e una sola voce. I valori sportivi sono in aperto contrasto con qualsiasi forma di violenza; si è avversari sul campo, ma non nemici.

Siamo piccoli, una goccia nel mare dell’informazione; mettiamo il nostro mattoncino, sperando sia abbastanza. L’unico antidoto alla barbarie è fare il proprio dovere: andare allo stadio, continuare a vivere – e a informare. E, ogni volta che sarà necessario, saremo in prima linea.