Caso doping: la Russia si è comportata come l’Unione Sovietica
È possibile che ci si accorga dell’atletica solo a seguito di uno scandalo? È possibile che il doping sia più forte di un record del mondo, di una prestazione da leggenda di Usain Bolt? La risposta è affermativa. Il mondo dell’atletica sta assestando il proprio asse dopo il terremoto scatenato dal rapporto WADA, in aria di pubblicazione da almeno dieci giorni (va detto). Che cosa ci sia dietro lo sport russo è un mistero e l’atteggiamento di questo Stato è parso ancora una volta da ante-Muro di Berlino, più da URSS che da Federazione Russa. L’insabbiamento è un’arte molto praticata, la distruzione delle prove una placida consuetudine funzionale all’omertà degli oligopolisti.
Putin sbaglia clamorosamente quando paventa “una manovra americana nei nostri confronti” tesa a destabilizzare il paese, saldamente stretto nelle sue forti mani da judoka. Stavolta la politica non c’entra. Conta il rispetto verso i valori fondamentali dello sport, conta il rispetto delle regole e della sana competizione. No, Obama e l’FBI stanno dall’altra parte del mondo, forse a fregarsi le mani per questo scandalo a tinte rosse sovietiche dimenticando, forse, che nemmeno loro sono riusciti ad evitare le ombre lunghe dei casi Johnson e Jones.
La WADA rincorre, i dopati fuggono da un sistema poco rapido dal punto di vista giudiziale. Proprio come accade nel giochino “guardia&ladri”, l’organizzazione stila di anno in anno la classifica di sostanze e medicinali proibite solo dopo essersi imbattuta in un atleta positivo. Sarebbe bello, una volta tanto, che la WADA giochi d’anticipo eseguendo un giudizio prognostico capace di individuare con tempestività i delinquenti. Fino a quel momento l’atletica e tutti gli altri sport saranno in mano a tante piccole forme di Unione Sovietica.