Piccola differenza ignobile

“Prima presero i ciclisti ma non me ne importava perché tanto non lo seguivo”. Parafrasando Brecht e dimenticando Armstrong, la notizia del doping di Stato che vede coinvolti gli atleti russi e sconvolta la credibilità dell’atletica, colpisce lì dove preferiremmo non guardare, per non scoprire sottotracce annerite e contaminate, troppo difficili da rimuovere.

La Wada, organismo internazionale adibito al controllo dell’igiene ormonale degli atleti sportivi, è addivenuta alla decisione di sganciare una bomba giuridica senza precedenti. Non solo singoli atleti, ma un’intera federazione viene additata come organizzazione dedita alla furfanteria organizzata, con lo specifico obiettivo di racimolare polvere di stelle da soffiare sull’orgoglio nazionale, fomentando al contempo l’appetibilità degli sponsor. Di fronte al colosso russo, non c’è limite per le illazioni. Chi ricorda i precedenti risalenti all’epoca della cortina di ferro, con le vicende di doping trapelate solo molti anni dopo, quando dall’ex DDR, quando dall’oriente bulgaro e chi ipotizza un complotto internazionale, vincolato dalle contingenze ambivalenti che da sempre attorniano il mandato monocratico di Putin, amico e avversario in parti uguali dell’azionariato democratico occidentale.

Nemmeno il tempo di digerire il biscottone Maquez-Lorenzo del motomondiale, ed eccoci di fronte a un nuovo colpo al mondo sportivo, nello stesso giorno in cui il numero uno della federcalcio tedesca campione del mondo, si dimette in seguito alle accuse di corruzione inerenti l’assegnazione del Mondiale 2006. Non che quelli del 2010 siano stati più puliti, a giudicare dalle inchieste che coinvolgono Blatter, per tacere di quelli del 2018, sempre in Russia, o del 2022 in Qatar.

Del resto la Wada aveva già colpito la Giamaica, i cui velocisti sono stati protagonisti assoluti delle Olimpiadi londinesi del 2012 e in più occasioni aveva esposto le proprie perplessità alla IAAF, la Federazione mondiale dell’Atletica, il cui ex presidente, il franco senegalese Lamine Diack, è tuttora sotto inchiesta.

Pensi all’atletica e al doping, e i meno imberbi immediatamente ricordano il fantasma – fortunatamente ancora in carne – di Ben Johnson, il velocista di Seul ’88 capace di polverizzare il record dei 100 metri a colpi di stanozol, squalificato ma volendo tuttora virtualmente imbattuto o quello di Florence Griffith-Joyner, la figlia del vento statunitense, famosa oltre che per le sue lunghissime unghie per i suoi record e le sue medaglie vinte sempre a Seul, lei sì oggi prematuramente trapassata nel mondo dei più a nemmeno quarant’anni, dopo che la sua vita sportiva era entrata nel cono d’ombra del sospetto di doping, mai comunque dimostrato (il suo tragico destino sarebbe legato a una crisi epilettica nel sonno).

Il labile confine tra una prestazione ai limiti dell’efficienza atletica e quella sospinta un passo avanti dall’ipercarburazione indotta è talmente serrato in uno spazio-tempo fatto di decimi o centesimi di secondo, di centimetri conquistati come trincee carsiche e di resistenze dilatate oltre la pressione esercitata agli argini della vasocostrizione, che ci ritroviamo sempre a raccontare di una piccola differenza ignobile, banale come tante, ma sempre più in grado di conquistare le prime pagine dei giornali.

L’inchiesta è appena cominciata ma la richiesta di squalifica per gli atleti russi pesa già come una mezza sentenza. Ora tocca a politici e avvocati, agenzie governative e dipartimenti dello sport, camici bianchi e laboratori di analisi. Mancano ancora nove mesi all’avvio dell’avventura olimpica di Rio, ma la questione russa è già lì, a ricordarci che non è tutt’oro, quel che riluce sul podio. E tanto meno nelle analisi.

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Paolo Chichierchia