Il concetto di ‘provinciale’, all’interno del mondo del calcio, è al contempo rigoroso e ben definito ma anche piuttosto facile da applicare ai contesti più svariati: può essere provinciale una squadra a livello di estrazione e tradizione, può essere provinciale l’atteggiamento che una formazione assume in partita, può essere provinciale l’ambiente in cui una compagine è immersa anche se teoricamente ne sarebbe aliena, può essere provinciale un’intera competizione (le serie minori, per antonomasia, possono essere considerate l’habitat naturale del pallone di provincia, a torto o a ragione).
Non solo: provinciale conserva la sua ambivalenza ogniqualvolta lo si adopera come aggettivo, perché può essere un complimento – normalmente quando si elogia l’anima mai doma ma operaia di una squadra – ma anche un insulto, come quando si vuole stigmatizzare degli approcci troppo remissivi alle partite.
Guardando alle partite di ieri, possiamo trovare tantissima provincia: in primo luogo, abbiamo senza dubbio un’immagine evidente della provincia che soffre nell’Hellas Verona, due anni fa matricola terribile e spettacolare e oggi un ammasso spettrale di giocatori che non riescono a vincere uno straccio di partita che sia una: è vero che della primigenia squadra che Mandorlini si trovò a dover guidare nel momento del rientro in massima serie sono rimasti in pochissimi e che non sempre il mercato ha saputo portare sotto l’Arena elementi all’altezza di chi era già salpato per altri lidi, ma lo zero alla casella “vittorie in campionato” dopo dodici turni è un campanello d’allarme agghiacciante per i tifosi e, ne siamo certi, tutto il resto dello staff societario. La rosa, falcidiata da mille infortuni, dovrebbe potersi ergere più su in classifica ma le tante, troppe defezioni di calciatori cardine del progetto gialloblù ha hanno tarpato le ali fin da subito a una realtà che, sulla falsariga dello scorso anno, si sarebbe dovuta salvare, anche se non senza qualche patema.
Quindi, oltre all’immagine del patimento, il Verona ci regala anche un’istantanea del sottile baratro su cui il calcio cosiddetto di provincia (ammesso e non concesso che si possa definire così una società che – non dimentichiamolo – è tra le sole sedici in Italia a poter vantare almeno uno scudetto) pare condannato a camminare: se non si è una delle grandi tradizionalmente riconosciute, spesso e volentieri il proprio ineluttabile destino è una permanenza a termine più o meno lungo in Serie A che, inevitabilmente, prima o poi terminerà. Oggi va bene e si sfiora – o talvolta si raggiunge addirittura – un piazzamento europeo, domani arriverà la lotta per non retrocedere: questa la continua battaglia del calcio di provincia.
Il Bologna, vittorioso nello scontro con gli Scaligeri, rappresenta un’altra faccia della realtà provinciale: i felsinei, anch’essi (e ancor più dei rivali gialloblù di ieri, in effetti) una provinciale con un passato splendente da grande vera e propria, sono una realtà che non solo vuole stare nel massimo campionato in pianta stabile ma pure puntare a diventarne un pilastro. Dunque i rossoblù sono probabilmente il più lampante esempio di provincia arrembante e ambiziosa che, se possibile, vorrebbe anche smarcarsi dal peso di questo aggettivo e, chissà, tornare a reindossare il vestito buono da big, qual è stata fino agli anni ’60 (e in parte anche nei ’70).
C’è poi l’Atalanta, una (o forse la?) provinciale per eccellenza del nostro panorama calcistico: quello bergamasco è un contesto generalmente indicato dai più – e con ragione – come virtuoso, dove tantissimi giovani trovano spazio e vengono formati a livello di Under 19, Under 16 e così via, tant’è che il vivaio orobico è di norma considerato – se non il migliore – come uno dei più validi di tutto il Paese. Nel contempo, peraltro, la prima squadra è una presenza più o meno costante del massimo campionato tricolore, tant’è che nell’ultima trentina d’anni le risalite in Serie A dalla B sono state praticamente sempre immediate rispetto alle retrocessioni, segno di una chiara impronta di alto livello e della capacità di non scomporsi, tornando sempre con vigore al contesto più appropriato.
Quella nerazzurra è forse la provinciale per eccellenza del nostro calcio proprio perché alterna senza troppi patemi annate fatte anche di bel gioco e di complimenti da parte di critici e addetti ai lavori a brutte retrocessioni, è quindi continuamente in bilico tra la media classifica del massimo campionato e i quartieri altissimi di quello cadetto. La scontata e ben accetta mancanza di ambizioni di successo in Serie A così come una caratura di squadra tendenzialmente ampiamente al di sopra della Serie B sono i confini entro i quali si muove la Dea, un limbo che è la definizione stessa del concetto di “provincia” del pallone ai suoi livelli più alti, quando lambisce quasi il confine con la dimensione delle “grandi” tradizionale (le sette sorelle di una volta o chi per esse, ovviamente).
Capita però – e l’Atalanta vista a San Siro ieri sera casca proprio a fagiolo – che la provinciale del caso, nonostante venga effettivamente da una piazza più marginale delle varie Roma, Torino, Napoli o Milano, non abbia niente di provinciale nel modo di proporsi in campo. Ne è un esempio ormai piuttosto evidente il Sassuolo, che quasi fin dal suo sbarco in Serie A schiera abitualmente tre punte, ne è stato un’incarnazione decisamente efficace, dicevamo, l’Atalanta di ieri sera: messa in campo con un 4-3-3 teoricamente speculare a quello disegnato da Mihajlović per il suo Milan, è stata proprio la formazione bergamasca a dimostrare quanto possa essere produttiva e divertente quella disposizione tattica piuttosto che quella rossonera.
Anzi, si può dire che tra le due contendenti l’atteggiamento più canonicamente considerato provinciale, ossia il badare a non prenderle per prima cosa e – in caso si riesca a non subire gol – provare a pungere in contropiede, è stato scientemente applicato proprio dal Milan che, nella ripresa in particolare, ha seriamente rischiato non solo la sconfitta ma anche la figuraccia, in un ribaltamento di ruoli che ha messo in chiaro come, a volte, la provincia abbia voglia di diventare capitale, foss’anche per una notte.
O per un giorno. A patto che quello sia un giorno vissuto pienamente da provinciali.