Figli di un dieci minore: Domenico Morfeo, “potrei ma non voglio”
Se è vero che molti calciatori sudamericani e in particolar modo argentini, portano nelle loro discendenze ataviche traccia di emigrazioni dal vecchio continente e dall’Italia, Domenico Morfeo da Pescina, classe ’76, pur senza mai essere partito per Buenos Aires o Montevideo, possedeva nel suo mancino accarezzare palla, una confidenza innata, una fisiognomica pedestre esprssa in equilibrata corrispondenza di forma e misure tra sensibilità del tocco e dinamica della sfera, che facilmente avrebbero potuto accostarlo alla genetica dei sudamericani. Eppure, nella sua carriera, la via della predestinazione imboccò sentieri laterali e centrifughi, finendo per disperdersi in rivoli e stradine senza uscita, fino a tornare a casa, senza aver mai varcato spazi territoriali poco più che locali.
Sinistro sensibile e abilità nel dribbling, visione di gioco, capacità di assist millimetrici e intuizioni acrobatiche, controllo pulito e precisione di tiro ne facevano un fantasista completo. Un fisico minuto, limiti di altezza e muscoli delicati, contrappesavano il bagaglio quanto a doti atletiche. Indolenza e testardaggine, completavano il quadro delle attitudini, rappresentando le crepe attraverso le quali si sarebbe prodotta la dispersione delle propensioni naturali.
Formatosi nel vivaio dell’Atalanta, in età da Primavera riluceva tra i coetanei, al punto tale che nelle nazionali giovanili, poteva capitare di vederlo in campo, lasciando in panchina un certo Francesco Totti.
Debutta a 17 anni nell’Atalanta, collezionando 3 reti in 9 presenze. Con l’Atalanta completò la sua formazione disputando il successivo campionato di B e altri due di A, fino a collezionare 83 presenze e 22 reti, a soli 22 anni. In quegli anni, Morfeo partecipò in azzurro al Campionato europeo di calcio Under-21, vincendo l’oro in Spagna, il 31 maggio 1996, dopo una sfida ai rigori contro i padroni di casa. Suo l’ultimo centro italiano, dopo l’errore di Raul. Era l’Italia di Cannavaro e Nesta, Panucci, Tommasi e Totti, allenata da Cesare Maldini.
Il primo scatto di carriera per Morfeo, arrivò con il passaggio all’ambiziosa Fiorentina di Cecchi Gori. E qui iniziarono ad evidenziarsi i primi limiti caratteriali di Morfeo, stante la presenza di colossi del calcio quali Batistuta e Rui Costa, e l’ottimo Oliveira. 28 presenze e 5 reti nella prima stagione furono un bottino mediano, né alto né basso, comunque inferiore alle attese. Nella stagione successiva, la Fiorentina ingaggiò un altro attaccante: Edmundo, O’Animal. Concorrente in grado di declassare Morfeo, sia per talento che per intemperanze caratteriali. Né giovò a Morfeo la posizione disegnata successivamente per lui da Trapattoni che provò a dirottarlo sulle fasce, dove tuttavia Morfeo non aveva il passo giusto per esprimersi, nonostante il fisico brevilineo. In una fase critica della crescita, i prestiti prima al Milan (dove comunque vince uno scudetto, pur se da calciatore non protagonista) e poi al Cagliari non sembrarono aiutarlo, annacquandone le prestazioni.
Dove Morfeo sembrò ritrovarsi, fu a Verona, alla corte di un allenatore che stava iniziando a mettersi in evidenza in serie A. Un altro Cesare, stavolta Prandelli, che conosceva il talento di Morfeo per averci vinto il Torneo di Viareggio, con la Primavera dell’Atalanta. Arrivato in una sezione invernale di mercato, mentre la squadra sembrava già in dirittura di retrocessione, con 5 gol in 10 gare e innumerevoli giocate, Morfeo palesò quel repertorio che da anni tutti gli chiedevano, trascinando i gialloblu alla salvezza.
Morfeo rientrò a Firenze carico di aspettative e tuttavia le cose non girarono per il verso giusto: mezza stagione e via, per un altro giro, stavolta verso casa madre Atalanta. Nel pieno della maturità atletica, a 26 e 27 anni, Morfeo inanellò due stagioni dai numeri modesti, la prima sempre a Firenze, con 18 presenze e 2 reti, la seconda nell’Inter di Moratti (dove ritrovò gli ex compagni Toldo e Batistuta), con 17 presenze ed un solo gol.
A riportare Morfeo in una dimensione più consona alla propria capacità di esprimersi fu un’altra volta Prandelli, che lo volle con sé a Parma, dove bisognava rifondare la squadra dopo l’era dei fasti di Tanzi. Qui Morfeo giocò con discreta continuità per quattro stagioni, con una media presenze quantificabile in due terzi degli incontri, e mise a segno qualche gol ogni tanto (fino a un massimo di 8 nel 2004-‘05). Ma il suo apporto, soprattutto in fase di assistenza alle punte, risultò spesso decisivo, in particolare nei momenti di coppia con Gilardino. Lanci e tocchi sotto, colpi di tacco e piazzati, è di nuovo quasi magia, Morfeo.
La quinta stagione parmigiana fu invece più amara, segnando la fine del sodalizio. A 32 anni, Morfeo sembrò in procinto di scendere in serie B, accasandosi al Brescia.Tuttavia, a carte firmate, l’ormai logoro talento abruzzese decise di sciogliere il contratto, senza mai essere sceso in campo se non per una partita di Coppa Italia. Nel 2009, un altro dei suoi mentori dei tempi dell’Atalanta, Emiliano Mondonico, lo chiamò a Cremona, ma neanche lì andò bene: 4 misere presenze, per l’ultima avventura tra i professionisti.
Quel che resta di Morfeo, è comunque un ricordo troppo acclamato per essere dimenticato ma allo stesso tempo una perenne aurea di delusione circostante, un “potrei ma non voglio” pesante da comprendere. Tanta classe e molti numeri ma poi alla fine in pochi ricordano veramente quali, tranne i tifosi di giornata, presenti al momento dell’incanto. In fondo, forse è proprio Morfeo, il Re dei Dieci Minori.