Carlo Tavecchio e il calcio dei “normali”
Inutile ripromettersi di non allungare il passo oltre la misura della gamba, di provare, una volta tanto, a stare “nel proprio” (come se tale dimensione esistesse davvero, o fosse ben chiara), di non cedere a tentazioni che, certo, basse non sono, ma troppo alte, forse, sì. Compatiteci, dicevano i comici dell’arte nei prologhi per illustrar l’argomento agli spettatori: è la realtà, il magmatico blob d’informazioni più o meno serie, sensate, quasi mai necessarie, che gli schermi rilucenti ci stampano nei bulbi oculari (immagine da Arancia meccanica, in effetti) a renderci impossibile evitar certi temi.
Abbiamo appena finito di strapazzare (non se n’è accorto, siamo pesci men che piccoli) quell’Alfredo Gavazzi presidente della Federazione Italiana Rugby “colpevole” d’un commentaccio da osteria (con tutto il rispetto per tali esercizi, che frequentiamo con soddisfatta assiduità) nel corso d’un incontro coi giornalisti e, subito, l’evocato collega pallonaro, Carlo Tavecchio, per non farsi né farci mancar niente, è di nuovo al centro delle polemiche per l’ennesima, censurabile, sconfortante, gaffe a sfondo discriminatorio.
Questa volta la categoria investita non è quella dei negri con banana né quella delle donne sportivamente handicappate: i fuoriclasse, è noto, offrono i bis svariando sul tema. Ecco, quindi, i due tasselli a completar l’ideale poker d’appartenenze a sfondo razzistico: ebrei e omosessuali.
Parlando di Cesare Anticoli, immobiliarista romano di religione semita (ebbe pure la ventura di essere, quindicenne, vittima di rastrellamenti nazisti e comparire, salvandosi, dinanzi a un plotone d’esecuzione), il presidentissimo durante una conversazione non del tutto privata (sullo statuto delle registrazioni incriminate si gioca infatti la commovente linea difensiva del nostro) usa il termine “ebreaccio” (peraltro, epiteto di rara cacofonia… ci si deve pure impegnar non poco per pronunziarlo), aggiungendo la sapidissima chiosa “Non ho niente contro gli ebrei, ma meglio tenerli a bada“. A bada in che maniera, poi, non è dato sapere.
Evidentemente non pago, l’ex sindaco democristiano di Ponte Lambro (vent’anni continuativi di reggenza, quattro mandati, da 1976 al ’95; domanda spontanea: quante ne avrà dette in quei due decenni?) ha pensato bene di strafare, come una specie di Eddy Merckx della minchiata: riferendosi, infatti, a un ex dirigente della FGCI, è lui a domandare: “Ma è vero che è omosessuale?” Sigillando: “Io non ho nulla contro, però teneteli lontani da me. Io sono normalissimo“.
Niente di nuovo sotto il sole, direte. E non avete tutti i torti, figuriamoci. È normalissimo anche questo, dopo tutto. Così come la già citata tesi della difesa, che grida al complotto (in questo, il modello inarrivabile è, ad altre ma non antipodiche latitudini, l’ex PresDelCons, persistente proprietario milanista), una strategia polemica a proposito della quale stiamo facendo il conto alla rovescia per quando saranno vittimisticamente tirati in ballo i poteri forti schierati contro colui che ci piace ricordare come il padre di Opti Poba.
Il problema, per noi, è proprio questo: l’effetto, cioè, d’una tale sovraesposizione protratta e continuata all’imbarbarimento del linguaggio, all’ostentazione impunita, all’ormai pneumatica impossibilità di fuggire l’equazione violenta e inaccettabile (per quanto accettata) del tutto è uguale a tutto. Che si tratti, sempre e comunque, di opinioni a confronto e, quindi, equipollenti, collocabili in prospettiva simmetrica. Si parli di ruspe come fossero trenini giocatolo, di tendenze sessuali come se definissero qualitativamente gli individui o di pigmentazioni epidermiche. Una retorica da normalissimi, come se tale attribuzione non fosse già di per sé, oltreché inautentica, insensata e stomacante.
Si sta consumando, in questi giorni, un anniversario peculiare. Il quarantesimo dell’uccisione, barbara e spietata, di Pier Paolo Pasolini, avvenuta poco fuori Roma, dalle parti di Ostia. Impossibile de-finire in poche parole una figura tanto centrale quanto sfuggente, diremmo eccedente, per la nostra cultura. Poeta, regista, scrittore, intellettuale corsaro: e molto, molto di più. Appassionato, lucido, e meno contraddittorio di quanto qualcuno vorrebbe far apparire, PPP costituisce tuttora una spina conficcata nel cuore del nostro sistema culturale, un difficilmente eguagliabile esempio d’aderenza tra vita, pensiero e opere.
Le manifestazioni indette per l’occorrenza sono imponenti e la cosa, se da un lato ci par più che lecita, dall’altro stupisce sino a insospettire: due o tre lustri or sono (per trentesimo e venticinquesimo anniversario) non vi fu, almeno per quanto ricordiamo, tutta la trepidazione pasoliniana di adesso e sempre diffidiamo (non da soli) delle monumentificazioni.
Tra le notizie di questi giorni, la concomitanza (casuale?) del ritornante Pier Paolo, appassionato di calcio, tifoso del Bologna (sua città natale), ala sinistra (in un’intervista fattagli da Enzo Biagi, alla domanda su cosa sarebbe voluto diventare se non fosse stato poeta e regista rispose: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”), la sua compresenza con autentici nani del (non) pensiero quali il succitato presidente ci pare una discrepanza tale da non poter avvertire dolore fisico nel percepirla, ben oltre il prevedibile scherno istintivo che certi personaggi ispirano. E la drammatica sensazione che i normali, quei normali, siano come una legione impossibile da sconfiggere. Non è così. Lo sappiamo, o almeno lo speriamo, ma la loro travolgente barbarie, amplificata dalle nuove forme comunicative (vorremmo citare Eco, ma ve lo risparmiamo), ci pare tanto dilagata da atterrirci.