Vujadin Boškov ha segnato profondamente la vita di tutti noi ma, senz’altro, su quella di Roberto Mancini ha avuto un’incidenza persino superiore: del resto, uno scudetto (l’unico della sua storia) vinto con la Sampdoria è roba che ti lega per sempre a chi ti ha accompagnato nell’impresa. E il buon Mancio sa perfettamente che senza Vuja il calciatore forte Mancini ci sarebbe stato comunque ma – probabilmente – sarebbe stato un Roberto meno ricco dentro e meno efficace fuori, forse addirittura un giocatore meraviglioso da vedere ma non un vincente.
Quel che finora non era mai apparso chiaro come oggi, nel giorno del post Inter-Roma che ha riconsegnato la vetta della Serie A ai nerazzurri, è quanto Boškov avesse inciso sul Mancini allenatore ma adesso possiamo dirlo: tantissimo. Magari agli esordi in panchina del tecnico jesino non sembrava un’influenza così spiccata: la Fiorentina vincitrice della Coppa Italia che il Mancio prese in corsa in una situazione molto difficile, la Lazio di Claudio López, Corradi e Stanković anch’essa dominatrice nella coppa nazionale e la prima Inter manciniana erano squadre che miravano a fare risultato soprattutto attraverso il bel gioco, compagini spettacolari che diedero un’ottima immagine di sé ma che mancavano di una solidità tale da renderle competitive fino in fondo per qualcosa più del podio in campionato ma temibilissime nella partita secca.
La qualità del gioco espresso dal credo del Mancini allenatore cala visibilmente nell’Inter del post Calciopoli ma lì avviene la svolta a livello di mentalità: l’ex bandiera della Sampdoria decide scientemente di sacrificare lo spettacolo in nome del risultato e, da quel momento in poi, tutte le squadre che si troverà ad allenare saranno quadrate, ciniche e terribilmente competitive nonostante siano molto più noiose da vedere di quelle precedenti (il gioco soporifero espresso dal suo Manchester City attirò a Mancini una pioggia di critiche, considerando il potenziale tecnico a disposizione ma, alla fine, riuscì a tornare campione d’Inghilterra dopo tempo immemore).
La sublimazione finale di questo processo volto a rendere le sue squadre sufficientemente solide per poter coltivare sogni di gloria è arrivata quest’anno, il secondo del suo ritorno al nerazzurro dopo una prima annata monca e iniziata solo a novembre. A oggi, l’Inter capolista ha giocato undici gare vincendone sette (una sola con un punteggio diverso da 1-0) e subendo gol solo in quattro occasioni: un dato impressionante che rende perfettamente l’idea di quali siano – a oggi – le priorità tecnico-tattiche dell’allenatore marchigiano e di come il Mancio abbia deciso di puntare tutte le fiches a sua disposizione sull’impenetrabilità dei suoi ragazzi prima ancora che sull’impianto di gioco da seguire.
Insomma, la morale finale che Roberto Mancini da Jesi sembra aver voluto rispolverare in maniera crudamente letterale è una delle immortali massime che il suo mentore serbo ha regalato alla stampa nei suoi anni ruggenti, applicandola rigorosamente alla sua situazione, capovolgendola di segno e, anzi, migliorandola: «Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0».
Funzionerà fino al termine della stagione? Negli ambienti nerazzurri sperano vivamente di sì, quanto meno per arrivare a quel terzo posto che significherebbe (preliminari di) Champions League a fine anno, così come Mancini stesso è convinto della bontà del suo approccio. Certo, le critiche per il livello non eccelso del gioco espresso perdurano e continueranno a rimbalzare dai media ai social network ma, in fin dei conti, cosa può importare delle critiche a un tecnico primo in classifica?