Rugby: Alfredo Gavazzi, il culo e l’importanza delle parole
Talvolta, si ha la sensazione di ripetersi. Più che la sensazione: la certezza; ma se è vero che un artista, in carriera, fa e disfà la medesima opera, non sarà certo un reato la coazione a ripetere di chi scrive. Lo ribadiamo: l’Italia è un paese meraviglioso (o lo era?) e allucinante. Quasi allucinogeno. Per motivi innumerevoli, ma, in questa sede, non vogliamo parlare dell’attualità cronistica (un ente regionale che si erge a mandante di un omicidio, contrapponendosi, de facto, al codice penale, subdolamente istituendo una licenza di uccidere), bensì di sport, niente più o niente meno che di sport. E che questo settore, cui la massa o gran parte di essa demanda dei propri sogni proiettivi, non sia del tutto alieno dalla società e, quindi, anche dalla politica, è altrettanto una realtà rispetto alla quale è impossibile (se non colpevole) serrare lo sguardo.
Si parla (ancora) di rugby, e non ce ne volete, ché tempo è di mondiali e, alla fin fine, anche l’ovale è un pallone che, col passar degli anni, s’approssima sempre più al mondo cui la presente testata allude.
Accade che martedì sera, in un incontro coi giornalisti, il presidente della Federazione Italiana Rugby, al secolo Alfredo Gavazzi, rilascia una serie di dichiarazioni, spaziando su disparati argomenti: dal bilancio della spedizione italiana in Inghilterra (per cui ha ribadito il suo personalissimo e discutibile sei e mezzo) alle critiche ricevute da Diego Domínguez e Marcello Cuttitta (derubricate a mere “boutade elettorali“), dalle prospettive strutturali del movimento rugbistico azzurro alla gestione, recente e futura, della Nazionale.
Su ognuno dei detti argomenti, il presidente ha pieno diritto, e pure il dovere, d’esprimersi, ma il motivo per cui anche oggi ci occupiamo di lui è un altro, laterale, e, a nostro parere, non silenziabile. Parlando del XV azzurro, l’ex pilone di Calvisano ha commentato la situazione della “vecchia guardia”, a partire dalle polemiche seguite al mancato impiego di Mauro Bergamasco contro la Romania (in tribuna, senza neppure andare a referto). Oltre a lui, altri atleti importanti sarebbero prossimi a lasciare Azzurra ovale, magari con tempi diversi e, ovviamente, a seconda sia degli equilibri interni sia di chi sarà chiamato a sedere sulla panchina. Tra questi: Lorenzo Ghiraldini, Alessandro Zanni, Martín Castrogiovanni e, ovviamente, capitan Sergio Parisse, fuoriclasse assoluto, da anni cuore pulsante e cervello pensante del nostro XV.
Il numero 8 platense (italianissimo per spirito e sentimenti) ha trentadue primavere, è in scadenza di contratto e, assai probabilmente, dinanzi all’ultima firma importante della carriera. Attualmente in forza ai parigini dello Stade français, per lui si vociferano contatti australi, con la possibilità di partecipare al Super Rugby (la competitiva superlega che raccoglie club da Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica, Argentina e Giappone) e la conseguente prospettiva di vederne anticipato il ritiro in chiave azzurra. È delicata la situazione del capitano, il quale non ha affatto apprezzato i problemi contrattuali degli azzurri alla vigilia della coppa né l’ultima gestione d’un Brunel assai meno autorevole e convincente di quello visto sino a due stagioni fa.
In generale, sul gruppo dei “senatori”, Gavazzi ha ribadito un concetto plausibile, ossia che si cercherà di venire incontro alle esigenze di ognuno, ma che non saranno previsti trattamenti di favore. Un giornalista domanda: “Nemmeno per Parisse? Lui è oggettivamente diverso dagli altri” (per i motivi, magari pure eccepibili, di cui sopra, oltre che per il valore assoluto dell’atleta). La risposta, en passant: “Diverso in che senso, l’è cul?“, la cui parte finale, in traduzione dal veneto all’italiano, suona: “È culo?“, ossia “È culattone?” (frocio, finocchio, checca, ricchione: scegliete voi la declinazione preferita).
Non si tratta di far le maestrine dalla penna rossa, a bacchettar i Franti che sbagliano, o di pretendere una correttezza politica rispetto alla quale abbiamo una caterva di perplessità. (Mentre scriviamo, stiamo seguendo pure il caso Eranio-TV svizzera, che, però, ci pare tutt’altro paio di maniche rispetto alla querelle gavazziana).
Al contempo, troviamo irreale che una persona che ricopra una carica istituzionale di livello nazionale (e internazionale) possa permettersi di esprimersi pubblicamente in questo modo (l’incontro era informale, ma non si trattava di una chiacchierata tra amici: Gavazzi parla in quanto presidente), perpetrando, peraltro, l’agghiacciante equazione omosessuale=diverso. Non pensavamo che il Tavecchio di Optì Pobà potesse venir superato, ma, come spesso accade, la realtà italiana ci sorprende e smentisce, superando di gran lunga il prevedibile, il temuto e, soprattutto, l’inimmaginabile.
“Le parole sono importanti”: lo diceva, e non era una semplice battuta, Nanni Moretti nella scena di Palombella rossa (1989) in cui, tanto per stare in tema, finiva a schiaffeggiare una sedicente giornalista sportiva (!), aggiungendo “Ma come parla? Come parla!?!“. La sequenza del film, catartica, potente, liberatoria nella sua improbabilità fattuale (in quanto opera d’invenzione) ribadiva un concetto che il nostro paese stava già iniziando a smarrire alla fine degli anni Ottanta: la responsabilità delle parole; la coscienza e la consapevolezza che esse non siano semplici strumenti “caricati” di un senso, ma veri e propri oggetti che si relazionano in modo complesso, vischioso, con quanto definiamo realtà.
E, tornando a bomba, anzi, all’ovale, siamo convinti che una battuta come quella del signor Gavazzi non possa essere considerata, per ciò che egli rappresenta, unaveniale cafoneria da bar, ma esprima, invece, una visione del mondo e, per estensione, il livello di brado imbarbarimento di una parte consistente (la dirigenza!) del nostro sport e, dunque, del nostro paese.
Se pensiamo, inoltre, che uno dei personaggi più apprezzati del rugby mondiale è quel Nigel Owens, arbitro gay dichiarato (anni fa coinvolto in un ambiguo caso di razzismo etnico: ma stiamo parlando d’altro) a cui nessuno si sogna di applicare l’epiteto di diverso, la distanza che vive il nostro paese da certe realtà rischia di acquisire dimensioni siderali. E su questo dovremmo lavorare, ancora prima che sulle accademie, la formazione degli allenatori e le naturalizzazioni. Ma, consentiteci il pessimismo, dubitiamo vi siano speranze.