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Mondiali di rugby: il tramonto dell’Europa (e l’Italia non fa eccezione)

È trascorsa poco più d’una settimana dall’eliminazione dell’Italia dagli emozionanti mondiali di rugby tuttora in corso dalle parti di Albione. Le polemiche seguite a un’uscita azzurra, tanto prevedibile quanto priva d’attenuanti per i nostri, sono state ben alimentate dalle improvvide dichiarazioni del presidente federale Alfredo Gavazzi, il quale, affibiando un ottimistico quanto inconsistente sei e mezzo alla spedizione tricolore, ha asserito che, adesso, possiamo contare su “tre mediani di mischia di livello e quattro-cinque aperture”. Chissà quali partite ha visto, e non ce ne vogliano Edoardo “Ugo” GoriTommaso Allan, due trai migliori della compagine guidata (si fa per dire: i rumors parlano di spogliatoio in rivolta) dall’uscente Jacques Brunel.

Il bilancio di Italrugby merita, a voler essere onesti, una piena insufficienza: è vero che l’Irlanda è d’altra categoria (neppure parente della squadra “bastonata” a Roma il 16 marzo 2013), così come è vero che i cugini d’Oltralpe, mai tanto modesti, sono per noi avversari proibitivi lontano dallo Stivale. Altrettanto poco vale sottolineare la pur decente prova contro il trifoglio: il problema è che il gioco italiano ha subito una forte involuzione in questi ultimi anni, un calo d’efficacia nel pacchetto di mischia e nessun miglioramento sensibile nei trequarti. Si fa a spallate, ci si batte col cuore, ma l’ovale sembra spesso un oggetto poco amico, la cui trasmissione è a dir poco faticatissima.
Se passiamo all’aspetto mentale, va pure peggio: dopo il pessimo debutto contro la Francia, i nostri hanno replicato una prestazione ingiustificabile con i modesti canadesi e dopo la discreta partita contro l’Irlanda (che, visto l’andazzo, forse sapeva di poter giochicchiare in vista del vero scontro a vertice coi galletti), è seguito un match contro la Romania ben gestito sino al 60′, ma che abbiamo rischiato di compromettere a risultato acquisito con gli scellerati 20 minuti finali. Difficile immaginare un involuzione tanto preoccupante sotto il profilo dell’attitudine.

Poche davvero le note positive: la qualificazione a Giappone 2019 (obiettivo minimo), la mediana Gori-Allan di cui abbiamo già detto (ma dopo un anno perduto, in chiave Allan, a testare Haimona, peraltro centro di ruolo); aggiungiamo Carlo Canna, 10 fantasioso prospetticamente complementare alla “regolarità” dell’italoscozzese titolare, FurnoFavaro, un certo ringiovanimento dall’11 al 15.
Certo, però, che arrivare a un mese dal mondiale con i giocatori in agitazione e un contratto da firmare è il segno d’una confusione generalizzata davvero inammissibile, che fa il paio con i risultati poco soddisfacenti in materia di organizzazione complessiva, il campionato nazionale poco valorizzato e il progetto delle franchigie in Celtic League che, sinora, si è rivelato un buco nell’acqua (e Gavazzi ne vorrebbe una terza! Non si sa con quali soldi).
S’aggiunga la (probabile) necessità di sostituire a breve un fuoriclasse come Sergio Parisse (la sua presenza contro l’Irlanda, pure a fronte di una condizione fisica deficitaria, ha sortito un effetto evidente sugli avversari!) senza che all’orizzonte s’intravedano talenti tanto cristallini, e il quadro è davvero critico: non sarà certo l’ennesimo ct straniero dal buon pedigree (Conor O’Shea? Intanto non sappiamo ancora se Brunel farà il Sei Nazioni o no!) a risolvere problemi le cui radici sono ben profonde e di natura strutturale alla federazione e alla diffusione di base di questo bellissimo sport.

Se Atene piange, però, Sparta soffre ancor di più. Da un lato, è una verafortuna non essere approdati agli utopici quarti di finale (mai raggiunti nella storia della competizione): il solo pensiero d’affrontare gli All Blacks di sabato scorso (9 mete e francesi annegati da sessanta punti) ci fa rabbrividire… roba da chiedere l’intervento del Tribunale dell’Aia o di Amnesty International.
Il fallimento dei Bleus è palese, e va a braccetto con quello degli inglesi padroni di casa: notevole che i due maggiori movimenti continentali (con campionati ricchissimi) abbiano entrambi ciccato in così malo modo un appuntamento tanto importante, al punto da “ridurre” la contesa iridata a un’edizione fuori sede del Rugby Championship. L’Argentina, infatti, non è più considerabile una parvenue del rugger: la seconda semifinale in tre edizioni dovrebbe far riflettere. Senza contare la sicura e prossima ascesa di un Giappone cui non difettano possibilità economiche e capacità organizzative. E, tanto per dire: nipponici e sudamericani entreranno nel Super XV con una franchigia a testa, altro che le inefficaci “ammucchiate” delle nostre latitudini!

Salvano la faccia ovale del Vecchio Continente la sfortunata bravura di Irlanda e Galles, entrambe decimatissime dagli infortuni: a ranghi compatti, le due migliori europee (quattro Sei Nazioni vinti degli ultimi sei) avrebbero potuto ampiamente aspirare alla semifinale comunque intravista, evitando il primo en plein australe nella storia iridata. Menzione d’onore anche a una Scozia dal cuore grande così, a un passo dal far fuori i favoritissimi australiani, un sogno “impossibile” (e francamente imprevisto) tramontato in malo modo a circa novanta secondi dalla fine.

Lo sport non è qualcosa di scientifico e spesso una vittoria può correre anche sul filo del caso, ma questo non esclude, tutt’altro, la necessità di (ri)programmazione a lungo termine, investimenti oculati, capacità di valorizzare al massimo le competenze. I casi di Francia e Inghilterra sono assai diversi, e incomparabili rispetto a quello dell’Italia, per la quale ci sarebbe da sperare davvero in un cambiamento profondo e che non passi dalle scorciatoie malamente intraprese negli ultimi anni.
Nel frattempo, i mondiali, bellissimi per gioco, emozioni e organizzazione, continuano: purtroppo, non ci resta che guardare e applaudire.