Chiudere la ferita del Filadelfia
Di rifare il Filadelfia se ne parla da prima che io fossi in età da cominciare a seguire il calcio. Ogni volta un’idea, ogni volta una promessa. Ogni volta numeri diversi: in termini di denaro, e in termini di capienza. Tra palazzinari, progetti di ogni sorta, fatti e rifatti e visti e rivisti, con un unico denominatore comune: non riuscire mai a vedere la luce – anzi: non andarci neanche troppo vicino.
È una storia di illusioni e delusioni, quella del Filadelfia: sempre qualcuno o qualcosa a mettere i bastoni tra le ruote – con continui scambi e ribaltamenti di responsabilità. Destinazione sportiva e ricreativa, no, poi area residenziale, verde pubblico, qualsiasi cosa (incluso l’ostruzionismo del consigliere comunale Viale, nel 2001). Idee e progetti a gettito continuo: ma solo a dimostrazione, neanche a dirlo, di mancata progettualità. Si progetta perché si deve farlo, non perché ci siano idee chiare.
Più in generale, la situazione dell’impiantistica nel Paese è drammatica, e anche i vertici nazionali non sono incolpevoli: basti pensare che nel 2008, per la candidatura italiana a ospitare i Mondiali 2014 di pallacanestro, uno degli impianti di gioco indicati era il Parco delle Stelle di Bologna: un palazzo di cui non esisteva una pietra e che nei progetti doveva essere finito per il 2013 – ironicamente, l’anno in cui i terreni su cui doveva sorgere sono finiti all’asta. E tutto questo quando a Casalecchio esiste già un impianto da 8.500 posti (con progetti di ampliamento a 11.000).
Fortuna vuole che, in tempi relativamente recenti, si siano finalmente visti casi virtuosi di società che pianificano e consolidano: la Juventus con lo Stadium, l’Udinese con il rinnovato Friuli, e il Sassuolo che ha preso il Giglio (ora Mapei) che fu di quella Reggiana pioniera dello stadio di proprietà, ma troppo presto finita in cattive acque sportive e finanziarie.
Per cui un po’ di scetticismo verso l’ennesimo progetto di rinascita dello storico Filadelfia è ancora lecito; ma è altrettanto lecito sperare e credere che invece si possa trattare di un altro piccolo passo verso una normalizzazione dell’anomalia italiana.
Abbandonato dagli anni Settanta, divenuto fatiscente e quasi completamente demolito nell’aprile 1998 (la tribuna, in stile Liberty, è soggetta a tutela per interesse storico-architettonico), in tempi recenti almeno mantenuto al minimo dai cittadini e tifosi, stufi di vedere un pezzo di storia granata in totale rovina (al punto che, prima che un comitato di cittadini si prendesse volontariamente cura del prato, dove calciavano Rigamonti, Loik, Mazzola e compagni, c’era chi lo aveva usato come orto).
A fare piacere è anche la “modestia” del progetto: non più uno stadio (grazie a Torino 2006, per quello c’è già l’Olimpico), ma un centro di allenamenti per la prima squadra e per le giovanili. Tre gradinate su un campo, una tribunetta in un altro; totale di 4.000 spettatori. Dovrebbe essere la casa della Primavera, oltre che la sede della società (e una foresteria per gli atleti fuorisede). Se il Grande Torino non potrà più esserci, è giusto che i nuovi giovani granata crescano nel luogo che è stato il tempio granata. Malgrado prima fosse periferia, e oggi città piena; o, forse, proprio per questo.
Al Filadelfia non si gioca più dal lontano 1963; il primo incontro si era svolto il 17 ottobre 1926. Il 17 ottobre 2015 (89 anni dopo; domani) si dovrebbe finalmente posare la prima pietra, alla presenza di un’icona granata come Paolino Pulici. E la speranza è di rivedere una partita ufficiale il 17 ottobre 1926, a 90 anni dalla prima. Perché c’è un’anima, su quel campo: è l’anima di una squadra capace di mantenere l’imbattibilità per più di 100 partite consecutive. Ma è anche l’anima di chi, operando in piccolo, comincia a pensare in grande.