C’era una volta un’isola felice del calcio italiano, quel mondo cristallizzato in cui, sotto una certa dimensione, vincere è imperdonabile, ammesso che rientri nel novero delle possibilità. E benché di trofei non se ne fosse parlato, quest’isola felice coincidente con la terra là, in alto a destra allo Stivale, aveva fatto del calcio una passione, della passione un mestiere e del mestiere un vanto. Udinese e Friuli, binomio inscindibile, automatico.
Non parliamo del passato di Edinho e Zico, dei leggendari piazzamenti degli anni Cinquanta, ma del quasi trentennio dei Pozzo, il patron Giampaolo, proprietario (presidente Franco Soldati, dal 2011) e il figlio Gino. Gente in anticipo sui tempi a ritagliarsi, con mezzi esigui, spazi significativi ad alti livelli, nazionali e non. Per anni l’Udinese è stata un Davide in mezzo ai troppi Golia: dall’inatteso “bronzo” del 1998 (per alcuni lo scudetto degli onesti: ma nel calcio non scommetteremmo sulla verginità di chicchessia) ai piazzamenti degli anni Zero, il quarto e terzo posto (davvero incredibile) di Guidolin.
Occhio lungo, giuste connessioni, scommettendo su molti talenti a basso costo, nella speranza che l’esplosione di uno ripaghi della dispersione degli altri, consci che quello dei calciatori è uno dei mercati i cui “prodotti” (gli atleti) possono registrare le più ingenti escursioni di valore. Poco o nulla romantico, per chi ha presto capito come il pallone possa costituire (legittima) fonte reddituale, in cui la passione è componente importante, ma non primaria. Dall’Udinese sbarazzina si è passati alla Holding, come i maligni definiscono la connection che vede i bianconeri vertice d’un triangolo (non si sa se equilatero, isoscele o scaleno) con Watford e Granada, per far giocare (e non deprezzare) i pedatori a libro paga.
In mezzo, l’equivoco del tifo, strabismo implicito allo sport dei professionisti, calcio in primis: l’adesione affettiva a qualcosa la cui logica è d’altro tipo, nell’intreccio d’interessi strategici ed economici (quando va bene) sfuggenti alla pubblica percezione. I friulani, pazienti, silenziosi, poco inclini all’illusione, hanno via via fatto il callo a salutare i beniamini, a non affezionarvisi, a festeggiare i bei bilanci di piazzale Argentina: ma il calcio non è (solo) ragioneria e, per quanto incredibile ai poco esperti di cose furlane, mai lo scollamento tra società e pubblico è stato tanto netto, complici pure le ultime grame annate sul campo.
Già, il campo: quello Stadio Friuli, già dei Rizzi (dal quartiere circostante), voluto dal fu sindaco Candolini, inaugurato nel settembre 1976, qualche giorno dopo le ultime scosse del terribile terremoto, e la cui denominazione venne ratificata nel ’78, con lo scopo di ricordare il disastro patito dall’intera regione. Il vecio Giampaolo, molti lo dicono più morbido dell’intrepido delfino migrato in Albione, reputa lo stadio rinnovato quale suo (ultimo?) regalo alla città, presupposto ideale per poter (sperare di) vincere. Il popolo ascolta, prende nota, con dubbia convinzione.
E, intanto, la grana (in tutti i sensi) del nome, che non è questione di lana caprina: Dacia, attuale sponsor, offre mezzo milione annuo per dieci stagioni se l’impianto sarà battezzato Dacia Arena. Il Comune, cui spetta una percentuale (da definire), non disdegna, il sindaco Honsell (PD) accetta, idem la società. L’affare, però, s’ingrossa: ai malumori sportivi (lo stentato avvio in campionato non aiuta) si sommano logiche da fuoco incrociato politico, con l’opposizione schierata per la tradizione (il nome attuale) e la maggioranza che tentenna e disdice. Ieri 5 ottobre, ci sarebbe dovuto essere l’annuncio ufficiale: rimandato, per evitar passi falsi.
In tutto ciò, ben riconoscendo come il nome Friuli abbia valore emotivo non commerciabile, viene da chiedersi: davvero coloro che si stracciano le vesti in favore della vecchia denominazione stanno supportando (e supporteranno) la squadra che di tale spazio è principale espressione? Numeri alla mano, non si direbbe. E, allora, pure un dibattito che potrebbe dirsi sensato rischia (eufemismo al saccarosio) di svilirsi in mera schermaglia politica. Anche questa una forma di tifo, ma senza neppure la gioia effimera d’una rete che si gonfia.