Esistono dei calciatori che riescono a rimanere immortali negli appassionati per un particolare motivo. Coltivare la bellezza della memoria è una virtù che va tramandata di generazione in generazione. Un bene prezioso. Per questo, la figura mitica di Amedeo Biavati è arrivata intatta fino ai nostri giorni. Il suo nome è ancora oggi sinonimo di un gesto tecnico mai passato di moda: il “doppio passo“.
Scetticismo bolognese
Amedeo Biavati nasce a Bologna il 4 aprile 1915. Ancora giovanissimo entra nel settore giovanile della squadra rossoblu, inizialmente in posizione di mezzala. Arriva l’occasione in prima squadra il 21 maggio 1933, nella goleada contro il Casale per 7-0. Biavati risponde subito presente, con una doppietta, replicata al turno successivo contro il Milan. La sua prima annata in Serie A si chiude con ben 5 reti in 7 partite, un inizio più che incoraggiante. Ma che purtroppo non gli basta per conquistare un posto da titolare nella stagione seguente, dove vede il campo solo in 9 occasioni. Per convincere la dirigenza felsinea, è costretto ad andare in cadetteria e sgombrare il campo da ogni dubbio, grazie ad un campionato super a Catania. Rientrato alla base, si ritrova a vivere un campionato da incubo. Nessuna presenza per tutto il torneo 1935-36. L’anno dopo non va molto meglio, con 16 apparizioni ed una rete, sebbene impreziosite dallo scudetto. Per Biavati, è un momento calcistico delicato.
Il successo, finalmente
Si arriva al campionato 1937-38 e “Medeo” spera sia finalmente la volta buona. Vuole dimostrare a tutti che quell’ala destra veloce, precocemente stempiata, con i piedi piatti e che va via ai terzini avversari con un dribbling molto particolare, in fondo non è poi così male. Per fortuna si concretizza il momento della svolta. Con il Bologna realizza 6 reti in 24 gare, finalmente titolare. La sua fama comincia ad ingrandirsi, perché ormai ha perfezionato quel dribbling che lo rende inarrestabile per tutti i difensori e che gli permette di imbeccare i compagni o concludere a rete personalmente. Ma di che gesto tecnico si trattava?
Il “doppio passo” alla Biavati
Amedeo Biavati mise a punto un movimento, in precedenza già abbozzato ma non perfezionato dallo juventino Raimundo “Mumo” Orsi: il bolognese effettuava, sempre in velocità, un piccolo saltello sul pallone con il piede sinistro, portandolo avanti come se dovesse colpire la sfera di tacco. Invece era una finta. Biavati approfittava dell’attimo di incertezza dell’avversario e gli andava via portando avanti la palla con il destro. Un movimento ripetuto per tante, tante volte nella stessa gara. Che venne studiato ma mai arginato dalle altre squadre ed addirittura protagonista di un breve documentario dell’epoca, che vedeva Biavati sul campo ricreare il dribbling poi analizzato al rallentatore. Un gesto tecnico in voga per tanti decenni seguenti.
La consacrazione in azzurro
La positiva stagione 1937-38 in rossoblu convinse il Commissario Tecnico Vittorio Pozzo a chiamarlo in azzurro, per la prima volta direttamente in occasione del Mondiale in Francia. Biavati partì riserva del triestino Pasinati e vide la maggior parte della rassegna da spettatore. Poi Pasinati si fece male ed arrivò il suo momento, nei quarti contro i padroni di casa. La sua prestazione fu convincente, al punto che Pozzo lo preferì al ristabilito Pasinati sia per la semifinale con il Brasile che per la finalissima Italia-Ungheria. Per “Medeo” fu la meritata consacrazione, un titolo di Campione del Mondo che ne accrebbe la fama.
La Guerra
La sfortuna di Biavati fu quella di veder sfumare tante gare internazionali a causa della Seconda Guerra Mondiale, in cui la Nazionale azzurra rimase inattiva. Si dovette “accontentare” di far ammirare le sue giocate solo in campionato, dove con il suo Bologna conquistò lo scudetto anche nel 1939 e nel 1941. Dopo la Guerra disputò altre tre gare in azzurro contro Svizzera e due volte con l’Austria: proprio nell’ultima delle sue 18 presenze (con 8 gol realizzati), Biavati perse la sua unica partita con la Nazionale. Uno score invidiabile.
Longevità
Lasciò il grande calcio ed il Bologna nel 1948, a 33 anni. Ma non si ritirò. Passò alla Reggina, in Serie C. E poi militò come allenatore-giocatore con Imolese, Magenta, Manduria, Molfetta e Belluno, prima di dire stop all’agonismo alla veneranda età di 40 anni nel 1955. In seguito allenò anche Fano, Boca San Lazzaro, Rovereto ed ebbe anche una parentesi in Libia.
Ultimi anni e oblìo
Ritiratosi a vita privata, trovò impiego negli ultimi anni della sua vita come dipendente comunale a Bologna, supervisionando gli impianti sportivi della sua città natale. Morì il 22 aprile 1979. In un’intervista del 2013, la figlia Daniela (proprietaria del Ristorante Caffè Biavati a Bologna) lamentò con dispiacere come la città felsinea avesse un po’ dimenticato il padre, a cui non è stata neppure intitolata una via. Sarebbe stato certamente un giusto riconoscimento allo spessore di Amedeo Biavati.
La sua vita in un libro
Nel 2014 Fabio Campisi ha pubblicato “Amedeo Biavati – Il mito del Doppio Passo“, Minerva Edizioni.