Lo sport azzurro tra campo e divano

L’Italia sportiva sta attraversando un periodo piuttosto controverso: non ci riferiamo al cammino poco brillante dei pallonari in club o Nazionale (il doppio 1-0 di questi giorni non ispira chissà quale orgoglio), ma a una tendenza di “lungo periodo” che abbraccia più discipline, considerandone ovviamente il diverso peso specifico rispetto alla base praticante e un confronto con i risultati che il nostro paese era uso cogliere nei decenni precedenti. Lo diciamo nella speranza, neppure celata, d’esser tosto smentiti, e sonoramente: dagli Azzurri della pallacanestro agli Europei (cruciali anche per andare a Rio), dall’Italrugby chiamata a sfatare il mito dei quarti di finale iridati (in Inghilterra: inizio della manifestazione, 18 settembre) o a La Squadra del ciclismo, tra qualche settimana attesa a Richmond per un mondiale piuttosto insidioso. Ma, come proveremo a dimostrare, non saranno auspicati e auspicabili successi prossimi venturi a vanificare la consistenza del nostro discorso.

A poco servono, infatti, le giuste e prevedibili citazioni delle eccellenze (termine ormai insoffribile) che pure esistono: dal redivivo Valentino Rossi all’eterna Federica Pellegrini, per dirne un paio, cui aggiungeremmo il tartassato Vincenzo Nibali; e a nulla serve enfatizzare supremazie storiche rispetto a discipline in cui godiamo d’una tradizione importante, sedimentata (si pensi a scherma o canottaggio), ma il cui bacino reale è, a livello planetario, assai ridotto rispetto ad altri sport. La realtà, e l’attuale condizione della Nazionale di calcio maschile risulta emblematica proprio per l’ampia visibilità del pallone, è che l’Italia, oltre a essere un paese seduto, come vari analisti osservano da tempo, è sedentario.

La recente débâcle occorsa alla nostra atletica leggera, di ritorno da Pechino con un medagliere mondiale intonso (mai accaduto in precedenza), ha, come di consueto, scatenato la rituale polemica emergenziale: accuse alla dispersione di forze costituita dai vari centri federali disseminati sul territorio, all’italianissima improvvisazione e alla disarmante mancanza di coordinamento tra addetti ai lavori, allenatori e atleti. Tutto vero, per carità. Giusto reagire alle batoste, concordiamo, ma se il nostro paese ha, strutturalmente e culturalmente, un problema annoso, in quasi qualsiasi settore si consideri, è quello di vivere di emergenze, senza aver la capacità di programmare con serietà, e relativa pazienza, le misure da mettere poi in pratica.

Le crisi di atletica, ciclismo, basket sono, in qualche modo, quasi più preoccupanti di quella (innegabile) del calcio, al di là dei miraggi d’uno sporadico quasi successo europeo; unite a questa, ci sembrano testimoniare un sostanziale imbolsimento da parte della nostra società nel suo complesso. E per crisi dell’atletica non s’intende tanto la mestizia degli zero tituli in bacheca, ma la volatilizzazione dei finalisti (col solo Gianmarco Tamberi, ottavo nel salto in alto), a testimonianza d’un sostanziale abbandono generalizzato della disciplina e del peggioramento medio delle prestazioni (con nuovi paesi che, magari, s’affacciano a livello iridato). Perché se le eccellenze sono risultati non strettamente programmabili e slegati da situazioni contestuali, è sulla classe media che si dovrebbero esercitare le analisi più articolate.

Invece, nel nostro mondo costantemente proiettato verso l’empirea società dello spettacolo di cui anche i volti celebri dello sport fanno parte, ci si lamenta se la squadra di calcio X non raggiunge i gironi di Champions (che nostalgia per i patetici attacchi all’Udinese sconfitta dal Braga perché minava il ranking Uefa: con Lotito non è che sia andata meglio), ci si preoccupa all’idea che l’Italbasket non approdi a Rio (incrociamo le dita), si sbufferà all’eventuale (probabile, ma non scontata) scòppola francese ai nostri rugbisti, ma non facciamo una piega (per così dire) se i ragazzi non si schiodano dai divani tra consolle, tablet e smartphone per andare a giocare a pallone. O in bici. O dove volete voi, purché escano di casa.

In uno dei libri sportivi più belli che abbiamo letto, Futebol. Lo stile di vita brasiliano di Alex Bellos,  illuminante volume più antropologico che calcistico pubblicato da Baldini Castoldi Dalai nel 2003, il compianto Socrates analizzava l’involuzione tecnica del calcio verdeoro mettendola in relazione all’urbanizzazione spinta che aveva decretato la scomparsa dei campi e delle strade in cui, un tempo, i ragazzini brasiliani apprendevano i rudimenti del gioco. A città più congestionate corrispondono meno spazi aperti e, di conseguenza, stili di vita meno portati al movimento: lo sport come spettacolo da fruire e non attività da praticare, patologia ancor più acuta se pensiamo a un paese come l’Italia, in cui l’insegnamento dell’educazione fisica costituisce un tasto dolente (tra gli altri, non è il solo) del sistema scolastico.
Forse, per tornare grandi, anziché pensare alla patente di Balotelli, si dovrebbe considerare l’idea di muovere (e far muovere) il fondoschiena. Il resto, magari, verrà da sé.

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Igor Vazzaz