L’ha toccata piano, come si dice in questi casi, Massimo Moratti: tra i suoi trofei preferiti non disdegna «lo scudetto vinto a tavolino, l’ho trovata una cosa giusta», ha dichiarato (dimentico che, come dire?, chi è senza peccato scagli la prima pietra, ecco). Uno sgarbo in una direzione ben precisa (bianconera, neanche a dirlo). In parte comunque anche una cosa comprensibile: è stato il primo scudo dopo avere speso qualcosa come 1.000 miliardi di vecchie lire; a suo modo, una liberazione.
Chi sa se ricorda un’altra liberazione, e un altro sgarbo: quello di Mario Balotelli alla maglia dell’Inter. Prima gettata via; poi direttamente ripudiata con il passaggio ai cugini rossoneri. Perché l’unico motivo per cui si parla poco dello scudetto preferito di Moratti è la presenza dell’altra Notizia: il ritorno di “Balo” in rossonero. Anche noi, oggettivamente, ne abbiamo dovuto parlare, riparlare, ancora parlare e ancora riparlare. E, per quanto lo si faccia, difficilmente sarà mai l’ultima volta.
Dopo cinque giorni di chiacchiere, ieri l’ufficialità: adesso si comincia a parlare di fatti. Parole al miele verso un ambiente con cui l’addio non era stato propriamente sereno («Sono in debito con Mihajlović», «Sono felice di essere tornato, ma ora devo lavorare e basta» tra le prime dichiarazioni), ma la prova positiva dell’operazione si avrà non prima di sei mesi (per essere negativa, può bastare un giorno solo). Perché adesso si presenta tirato a lucido, pronto per mettersi a disposizione di un allenatore che davanti ha già Bacca e Luiz Adriano; dovrà sapersi ricavare degli spazi, e poi farli fruttare.
Ma quando arriverà l’inverno (e arriverà sicuramente: ogni stagione di ogni giocatore ha degli alti e bassi, è scritto nel fisico umano) sarà tutto da vedere. A sentire le parole di Balotelli alla Gazzetta («c’è stato un Mario ragazzo e ora c’è un Mario uomo»), si direbbe che abbia letto il nostro Demetrio Bertuletti, su questi schermi una settimana fa: «Sei ancora giovane, ma ormai dovresti essere maturato».
Quello che sicuramente è maturato, e matura a ogni movimento di mercato, è il conto corrente di Mino Raiola: agente di campioni, e solo di quelli. Al passaggio dal Manchester City al Milan, osannato perché unico a riportare talento in Italia; lodato di nuovo quale genio quando un anno fa è riuscito a rispedire Balo in Inghilterra, stavolta al Liverpool. Mossa peraltro non banale neppure sotto il piano psicologico: i Reds erano appena riusciti a “resuscitare” Suárez. Poi sappiamo che l’uruguagio in Brasile è tornato in versione piranha, mentre Balotelli invece tornava ectoplasma: monetizzato il primo, Rodgers non è riuscito nel secondo miracolo.
E allora palla a Mino, che in questo caso è riuscito a far parlare dei suoi giocatori sia non muovendo Ibrahimović da Parigi, sia riportando Balo in Italia. Si presume dietro lauta parcella, ovviamente: Raiola il suo lavoro lo sa fare benissimo, ed è avanzato (di molti zeri) dai tempi in cui faceva qualsiasi lavoretto nella pizzeria del padre. Ora è uno dei padroni del mercato: abituato a muoversi soltanto dove si muovono milioni, niente di meno.
Oggettivamente bisognerebbe ricordare quando disse che «In Inghilterra lo rimpiangeranno per tanti anni», e ci sentiamo spaventati quando definisce il capriccioso Balotelli «un bene culturale» (è successo davvero, due anni fa), ma è un difetto mio privato. Finché riesce a smuovere i suoi campioni (a prescindere dal loro rendimento, a prescindere se riusciranno a dare nuova linfa a un movimento calcistico in apnea), ha ragione lui: sia che prenda provvigioni sui trasferimenti, sia che riesca a rivitalizzare un suo giocatore. Perché sicuramente, dai lavoretti fatti nella pizzeria del padre, Mino Raiola ha imparato benissimo come stare alla cassa.