Stadi di proprietà? Un suggerimento

Da qualche anno ormai si assiste a un grande dibattito, pubblico e non, relativo agli stadi di proprietà e a un nuovo approccio business-oriented alla filosofia che circonda le arene calcistiche. In attesa che il fermento intellettuale si traduca in un’operatività concreta (leggasi: magari facciamoli davvero questi stadi nuovi, moderni e di proprietà dei club!), è inevitabile pensare anche ai nomi che questi impianti dovrebbero poi portare.

In questo senso, si può pensare di dar retta a Federico Buffa, che spesso ha cercato di mettere in luce un piccolo – ma forse grande – problema di casa nostra: nessun impianto calcistico di prima grandezza è intitolato al più vincente allenatore dell’intera storia italiana. No, non c’entrano i vari Trapattoni, Sacchi, Lippi o Capello, si deve andare molto più indietro coi decenni perché parliamo di Vittorio Pozzo, unico tecnico della storia a vincere due Mondiali, per di più consecutivi e per di più con la stessa Nazionale. Quella italiana, la nostra.

È semplicemente assurdo che – ripetiamo – nessuno stadio italiano porti il nome di Pozzo. Gli unici comuni che hanno cercato di ovviare a questa lacuna denominando come il leggendario CT i loro impianti calcistici sono quello di Biella (patria dei genitori e luogo ove riposa tuttora il grande Vittorio, che però è nato a Torino) e quello di Boscoreale, in Campania. Con tutto il rispetto per le formazioni di queste due città, tuttavia, fa un po’ specie pensare che da nessun’altra parte, in realtà decisamente più blasonate da un punto di vista calcistico, si sia pensato di battezzare “Vittorio Pozzo” uno stadio. Neppure nella “sua” Torino, città dove Pozzo ha scritto le pagine più importanti della sua vita da calciatore, da dirigente e da allenatore e dove è più o meno sempre rimasto a vivere: d’accordo, il nome del primo allenatore italiano capace di laurearsi campione del mondo è più legato al Torino che non alla Juventus ma la storia del mitologico Vittorio è legata specialmente al mondo azzurro che, almeno in teoria, dovrebbe trascendere le appartenenze di club.

Ma non solo: oltre a essersi legato a filo doppio con l’Italia più che con una società in particolare, Pozzo fu uno dei padri del metodo, il piano tattico contrapposto al sistema – detto anche WM dalla disposizione dei giocatori in campo – che, invece, l’allora CT azzurro considerava inadatto alle caratteristiche atletiche e alla mentalità italiana. Di fatto, semplificando, si può dire che la fama della Nazionale (che dura tuttora) di squadra affidabile in difesa e letale nelle ripartenze nasce proprio qui, sotto l’egida del tenente torinese (tenente era il grado di Vittorio Pozzo durante la Prima Guerra Mondiale e ne fu il soprannome fino alla morte). Ma il modo italiano di interpretare il metodo ha fatto scuola non solo a livello di squadre nazionali, ma anche di club: i successi del Bologna e della Juventus degli anni ’30 debbono moltissimo alla lezione del tecnico azzurro dell’epoca.

Eppure Pozzo giace in un dimenticatoio, lontano dal Pantheon in cui si ricordano Meazza o Piola, probabilmente a causa del fatto che i suoi successi sono coincisi con un’epoca con cui, in Italia, si ha ancora un rapporto piuttosto conflittuale. Chiariamo, avvalendoci del parere di giornalisti illustri che hanno raccontato il tenente prima di noi (per esempio Bocca), che Pozzo non è mai stato antifascista né, allo stesso modo, è mai stato un particolare sostenitore del regime: come tanti, tanti altri all’epoca s’è ritrovato incardinato in una società che non gli faceva né caldo né freddo ma con cui ha ampiamente collaborato (peraltro riuscendo nei suoi intenti di non far avvicinare troppo la longa manus del Duce alla Nazionale o salvarla da un uso estensivo in termini propagandistici: di fatto noi non ricordiamo quella squadra come la “Nazionale di Mussolini”, come dice Ormezzano).

Nel secondo dopo guerra, però, la figura di Vittorio Pozzo venne accantonata in malo modo, perché il tenente torinese veniva allora percepito come un vecchio simbolo di un momento che non solo non si voleva raccontare ma pure rimuovere, per quanto possibile. Relegato ai margini di un calcio che voleva rinnovarsi e rilanciarsi – dopo essersi leccato innumerevoli ferite nei primissimi anni tra il ’45 e il ’48 –, Pozzo di fatto non è più rientrato nel giro del “calcio che conta”, rimanendone più spesso ai margini in veste di giornalista.

Forse, un primo passo verso un’accettazione definitiva del nostro passato (con tutti i suoi pro e contro, decida il lettore come valutare l’epoca in questione – non è affar nostro) potrebbe verificarsi proprio con una reale rivalutazione di Pozzo, la definitiva affermazione della verità secondo la quale i due Mondiali erano farina del suo sacco e non di quella del regime e una sua celebrazione più efficace che non nei servizi di Rai Storia che vanno in onda alle tre del mattino.

E quale celebrazione migliore di nominare uno stadio importante come lui?

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Giorgio Crico