Si potrebbe chiamarla la legge della ristorazione. Ristorazione del danno, s’intende. I fatti: un anno fa, di questo periodo, in occasione del derby tra le seconde squadre del Monaco 1860 e dei rivali del Bayern Monaco tre tifosi hanno trovato un tifoso avversario e lo hanno umiliato, rubandogli il cappellino che indossava e strappandogli la maglia dei Rossi, lasciandolo seminudo per strada. Una bravata conclusa con due fermi, mentre il terzo è riuscito a fuggire.
Come è normale in questi casi (vivendo in un paese a media civiltà, diciamo), si è andati a processo, e qui i due imputati, pur adulti il giusto (26 e 23 anni), non si sono distinti per acume: sprezzanti verso i giudici, si sono sempre mostrati convinti delle proprie azioni e non pentìti, rifiutandosi anche di fare il nome del terzo colpevole. Risultato: 15 mesi di carcere, e senza attenuanti generiche (che avrebbe fatto scattare la libertà vigilata, in vece della gattabuia).
Guardiamo i fatti: si decide di umiliare uno sconosciuto soltanto perché in quel momento indossa la maglia “sbagliata”, e si viene condannati a più di un anno di carcere, senza scappatoie. Dura lex, sed lex: in questo caso, particolarmente inflessibile.
Tutto ciò finché, al termine del giudizio di primo grado, al giudice Karin Jung (peraltro proprio tifosa del Monaco 1860) non è venuta in mente la giusta scappatoia: qualora si trovasse una conciliazione tra le due parti, l’esito di un eventuale processo di appello potrebbe essere più mite. Si consulta la parte offesa, si richiede la disponibilità dei rei, fin lì non pentitisi: e si arriva alla ristorazione del danno.
Come? Proponendo una mite umiliazione “correttiva”. Non è la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente): non si toglie niente a nessuno, ma si restituisce il maltolto venendo anche “condannati” a subire un’umiliazione simile a quella della vittima. Quindi: i due tifosi sono dovuti andare al negozio ufficiale del Bayern Monaco per comprare qualche gadget (tra cui, ovviamente, la maglietta e il cappellino che hanno fatto nascere il tutto). Esito dell’appello: condanne ridotte a 10 e 12 mesi (con conseguente libertà vigilata), oltre a tre anni di inibizione dagli stadi. Il tutto con l’accordo della vittima, che si è mostrata disinteressata a punizioni esemplari.
Lo dico: sono scettico sugli effetti di una giustizia del genere, in questo paese. Finirebbe che tutti continuano come sempre, salvo poi contare sul «volemose tanto bbbene». L’italica faccia tosta farebbe il resto; per tacere dell’attitudine tra il rissoso e l’opportunista che, nei casi in cui ci siano guadagni possibili, porta molte persone a non guardare in faccia a nessuno e ad approfittarsi di qualsiasi inezia. In questo caso, a Monaco di Baviera ha funzionato. A tarallucci e vino – cioè a brezel e birra, diciamo.
In proposito, se proprio dovessi chiudere una sentenza del genere, aggiungerei un’ultima ristorazione: un ciclo di tre cene assieme alla “vittima”, banalmente per conoscersi e venire a contatto con le rispettive umanità. A stomaco pieno e di fronte a un bel boccale, per rendersi conto che di sport si parla, e non di guerre di religione. O, almeno, è ciò che voglio ancora sperare.