Con i piedi per terra

Certamente Vin Baker non è mai stato tra i miei preferiti: troppo fisico, esponente di una deriva atletica che non può piacere a chi continua a credere che la pallacanestro sia un gioco di squadra basato sulla tecnica. Però i numeri parlano per lui: scelta numero 8 (Milwaukee) nel draft del 1993, All star quattro volte tra 1995 e 1998, una volta nel terzo e una nel secondo quintetto della lega, 11.839 punti e 5.867 rimbalzi in 791 presenze (604 in quintetto base). Ah, anche un oro olimpico a Sydney, per gradire. Per tante altre cifre per le quali vi rimandiamo a una bibbia come Basketball Reference: ci limitiamo a constatare come sia stata una carriera in discesa, che alla boa del millennio ha cominciato a declinare in modo evidente.

Colpa dell’alcol, e di conseguenza anche di problemi di peso (è arrivato a superare i 135 chili). Fin lì, era stato un centro più solido che spettacolare (su Youtube si trovano, per esempio, 5 schiacciate perfettamente normali), abituato a gesti decisivi come il canestro allo scadere che sconfisse i Bulls nel 1997 (video) o una celebre stoppata su Shawn Bradley. Uno su cui fare affidamento, uno che non le manda a dire.

Solo che non sempre essere baciati dalla fortuna (cioè: dal talento) è sufficiente per fare fruttare tutto il possibile. Anzi: il potenziale campione deve stare attento a sé stesso anche perché il successo e l’adrenalina quotidiana diventano poi una forma di dipendenza; se ne parla spesso quando ex sportivi salgono all’onore delle cronache per comportamenti devianti (come le scommesse clandestine).

Poi, per carità, nella storia di Vin Baker magari ci sarà anche un po’ di marketing da parte di Starbucks, le cui iniziative passate (come Race Together) a volte si sono rivelate controproducenti; ma è quantomeno singolare pensare a un asso NBA, che in carriera ha guadagnato un centinaio di milioni di dollari, ridursi a fare il commesso da Starbucks per sbarcare il lunario. Dalle schiacciate all’alcolismo, da dunk a drunk, per finire al caffè: la parabola è quantomeno singolare.

La realtà è che Baker va per i 44, non vola più sopra il canestro e ha quattro figli da mantenere; in qualche misura frequenta ancora la pallacanestro (allenatore della squadra di uno dei suoi figli, e quest’estate è stato chiamato a fare l’assistente dei Bucks alla Summer League di Las Vegas), ma soprattutto non frequenta più l’alcol da quattro anni. E studia da manager per Starbucks: grazie a Howard Schultz, già proprietario dei Seattle Sonics con i quali Baker ha giocato dal 1998 (forse la sua stagione migliore) al 2002.

È una storia chiaramente di marca statunitense, c’è tutto: la fortuna, il precipizio, la rinascita («I’m 43 and I have four kids. I have to pick up the pieces», ho 43 anni e quattro figli, e devo rimettere assieme i cocci). La fede, anche: seguendo le orme del padre, è diventato ministro protestante. E tutta questa sua storia gli è valsa l’invito di Jason Kidd per Las Vegas: per insegnare sì i movimenti spalle a canestro, ma soprattutto per indicare la via a giovani che potrebbero perdersi.

Aveva cominciato la carriera professionistica con i Bucks di Milwaukee, adesso sta cominciando la sua seconda vita con Starbucks: per ora solo barista, in futuro chissà. Perché distruggere se stessi non arreca danno ad altri, ma non è comunque un diritto acquisito; e perché un genitore ha bisogno di una seconda opportunità, per poter dare ai propri figli la prima. Dai Bucks a Starbucks, stavolta con i piedi per terra.

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Pietro Luigi Borgia