Sarà l’afa, sarà l’estate, saranno i giornali e le televisioni che ci informano che in questa stagione fa caldo. Vorrei piuttosto (e sono sicuro che il collega Vito Coppola la pensa come me) che ci parlassero dell’isteria collettiva che ci coglie. Negli scioperi bianchi del traffico locale (che non si fermano neanche laddove c’è un bambino morto), e anche nel traffico regionale e nazionale che registra nuovi record negativi.
Oppure, per restare nell’ambito sportivo, mi piacerebbe che qualcuno dedicasse uno studio attento alla figura del tifoso da aperitivo. Quello che in estate, quando la calura cala, scende al bar e parla con gli amici. E, a seconda dei nomi e delle destinazioni, prende percorsi stereotipati e non sempre coerenti.
Prendiamo lo stesso giocatore: facciamo l’attaccante bosniaco Edin Džeko. Quando era al Wolfsburg, e parliamo di soli quattro anni fa, in Italia lo cercavano in parecchie, e ciascuna tifoseria era convinta che sarebbe stato un colpaccio… dopo che l’aveva preso il Manchester City. Perché prima c’era il dubbio: troppo giovane (25 anni…), troppo inesperto, troppo alto, ha dimostrato troppo poco, e così via.
Insomma, l’abitudine di mettere le mani avanti, che oggi si declina così: più Džeko si avvicina alla Roma, più la tifoseria comincia a storcere il naso. La parabola è chiara: quando il giocatore è un obiettivo, è quasi sempre un colpo illuminato; quando diventa raggiungibile, però, cominciano a nascere i dubbi: ultima stagione deludente, giocatore discontinuo, non conosce il campionato, è bollito (a 29 anni?) e chi più ne ha più ne metta. Basta dare un’occhiata ai social network per rendersi conto di come certe voci crescano sull’onda del nulla.
Poi, chiaramente, c’è il momento della firma, ed è esattamente qui che sta uno spartiacque fondamentale: perché se Džeko (di cui molti hanno da un po’ cominciato a dubitare) firma per la Roma, l’entusiasmo giallorosso resta basso, e anzi diciamo pure che i dirigenti romanisti non sono all’altezza. Ma se la trattativa sfumasse, beh, certo che Džeko avrebbe fatto comodo: era proprio il centravanti ideale per Rudi Garcia…
Ci sono esempi a frotte, ma ne faccio soltanto altri due. Il primo è sull’altra sponda del Tevere: quante estati abbiamo visto trascorrere con contestazioni di ogni genere alla proprietà laziale, per via della gestione di Lotito? L’uomo ha pure i suoi difetti (non pochi, e non di secondo piano); ma è curioso che un anno fa si parlava di boicottaggio degli abbonamenti, e poi ci si è ritrovati in Champions esprimendo probabilmente il gioco migliore del campionato. Autocritiche non ne ho viste, onestamente.
Oppure prendiamo i tifosi del Napoli: quando Darmian era vicino, il commento più benevolo era «lo stiamo pagando un’eresia»; quando ha firmato per il Manchester United, però, si è passati a pensare che era il migliore su piazza e bisognava spendere, e che la società sul mercato è stata troppo debole (vale ripeterlo: è andato al Manchester United, mica bruscolini). Oppure Pepe Reina: rimpianto un anno fa per l’addio, poi rimpianto tutto l’anno perché è stato una perdita; adesso, al ritorno, ci si lamenta delle sue condizioni fisiche. Senza scampo.
Per questo mi piacciono le piccole squadre: perché per queste, almeno per qualche stagione, è tutto di guadagnato. Penso al Carpi o al Frosinone: fantastico stare in Serie A, basta e avanza (per ora). In un certo senso, meno si è avvezzi al grande palcoscenico, e più si è immuni al fenomeno dell’isteria da calciomercato. Perché a ragionare a tesi (devo lamentarmi: di pretesti ne trovo quanti voglio) ci si perde sempre. Se non sul campo, di sicuro in salute.
Poi ci sarebbe da fare un altro studio dello stesso tenore, ma stavolta riferito al calciomercato invernale: i tifosi non più da aperitivo, ma da apericena. Quelli che si sono entusiasmati per Podolski e Shaqiri; o quelli che, con la squadra ultima in classifica, vengono presi dall’entusiasmo a prescindere per cercare di risollevarsi. Ma di questo parleremo a suo tempo, se mai.