Quando un guerriero se ne va, dopo aver dato tutto se stesso sul campo di battaglia, merita gli onori di chi rimane. Quando poi questo guerriero ha soltanto 25 anni e davanti avrebbe avuto una vita ancora tutta da scrivere, in chi rimane, oltre alla classica pelle d’oca da reazione istantanea, resta un senso maledetto di frustrazione, di impotenza dinanzi alla durezza di una vita spesso incomprensibile, spesso troppo cattiva da accettare.
Jules Bianchi era un pilota emergente, gareggiava col team Marussia e sognava di diventare un grande campione. Per la verità, qualche piccola soddisfazione se l’era già presa qualche mese prima, entrando nella storia della sua scuderia con la conquista nel GP di Monaco dei primi punti in F1 per la squadra russa. Ma Jules aveva ancora tanto da dare e alla vigilia della gara giapponese, con l’entusiasmo tipico di chi ha un quarto di secolo, si dava la carica scrivendo sul proprio profilo Twitter: “Ready for tomorrow”. Non poteva sapere che quel Gran Premio sarebbe stato l’ultimo.
Circuito di Suzuka, Giappone, 5 ottobre 2014. Lui era pronto davvero, ma la vita, come dicevamo, a volte sa essere terribilmente bastarda. La gara si avviava alla conclusione quando Adrian Sutil a bordo della Sauber usciva fuori pista, fortunatamente senza conseguenze. Una gru presente sul tracciato si attivava per rimuovere il mezzo incidentato, e proprio allora, tradito forse dall’asfalto reso insidioso dalla pioggia, arrivava la monoposto di Bianchi. Tremendo l’impatto, con la Formula 1 del pilota francese che si infilava inesorabilmente sotto le ruote del trattore. Il resto è cosa nota, anche perché le immagini del video dello schianto hanno fatto letteralmente il giro del mondo.
Da quel momento inizia la battaglia del guerriero Jules: nove mesi di lotta estenuante, al confine tra la vita e la morte. In bilico, come lo è chi vive ad alte velocità. Nove mesi di coma lunghissimi per lui e per i familiari, a cui è toccato il triste e duro compito di comunicare al mondo che Jules non ce l’ha fatta. Sono stati proprio i suoi genitori Philippe e Christine, suo fratello Tom e sua sorella Mélanie ad annunciare con un pizzico d’orgoglio (unica cosa che ti rimane in questi frangenti) che Jules non c’è più, che ha tagliato il suo ultimo traguardo, ma che “ha combattuto fino all’ultimo, come ha sempre fatto”. Facile comprendere che il dolore della famiglia Bianchi sia davvero “immenso e indescrivibile”. Ai familiari, agli amici di Jules e a chi gli ha voluto bene, vanno le nostre più sincere condoglianze.
Più di vent’anni dopo la tragica morte di Ayrton Senna, dunque, arriva un altro lutto nel mondo della Formula 1. Sinceramente, non ci interessano le polemiche relative alla sicurezza del circuito, alla manovra della gru o alla presunta eccessiva velocità mantenuta da Bianchi, nonostante la visibilità ridotta. Sono terreni sui cui è meglio evitare di inoltrarsi, specialmente quando non si hanno gli elementi giusti per valutare. Ciò che resta è quella frustrazione, tipicamente umana, che caratterizza la fine del percorso di un guerriero. Quello stesso senso di impotenza che quando accadono queste cose ci porta a domandarci perché. E ogni volta ci lascia senza risposte.
Pare che Jules avesse confidato al padre che se gli fosse capitato qualcosa di simile a quanto occorso a Schumacher, non avrebbe accettato l’idea di non essere più in grado di fare il pilota di F1. E allora continua a sfrecciare in un’altra vita Jules. Questa terra ti sia lieve, addio grande guerriero.