Wimbledon, dove i giocatori diventano Uomini

“Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori…”.

La ricetta per essere un vero Uomo la diede Rudyard Kipling nel 1895 con una splendida poesia intitolata “If”, se. Questi versi del Premio Nobel per la letteratura 1907 sono usciti dal componimento per entrare nella storia dello sport essendo stati stampati sull’uscio che porta dentro il Center Court di Wimbledon. Gli inglesi sono un popolo meravigliosamente strano: guidano ancora alla sinistra mentre il resto del mondo ha capito che l’altro senso porta a indubbi vantaggi; hanno una moneta propria quand’anche l’Europa cercava di uniformare la valuta; giocano a tennis sull’erba mentre tutti gli altri, da sempre, cercano invano d’imitarli.

Che cosa rende unici i Championships? Sono molteplici i fattori che creano l’aura sacra che si respira a Church Road. Di sicuro l’esclusività dacché stiamo parlando di un torneo per pochi fortunati astanti: un certo numero di biglietti è estratto a sorte e ogni anno la gente è disposta ad accamparsi davanti ai botteghini per ottenere l’ambíto accesso. Ci sono diciannove campi ma il più grande ha la capacità di 18mila spettatori. Impossibile da replicare l’eleganza aristocratica: i membri sono 375, cui vanno aggiunti cento soci temporanei e i vincitori di ogni anno del torneo.

Tuttavia, le restrizioni dell’All England Club, se interpretate integralmente, portano a degli episodi bui, come quello di Angela Buxton, la tennista ebrea vincitrice del doppio ’56 con Althea Gibson: a distanza di sessant’anni non è stata ancora invitata dal presidente a prendere parte al circolo. La sportività annulla il senso di trasferta che purtroppo caratterizza alcuni tornei crudeli sciovinisti, come Roma o Parigi. Infine tradizione e rinnovamento: dalla prima finale del 1877 a oggi vige l’ordine del mostly white indicato nel rigido dress code, si gioca con vestiti quanto più possibili bianchi (nel 2013 a Federer fu ordinato il cambio di scarpe per l’eccessiva appariscenza delle suole arancioni), nella seconda giornata giocano solo le donne e la prima domenica le gare sono sospese; due regole che parevano insormontabili, invece, sono state cancellate, cioè la finale “Never on sunday” e il tetto sul campo centrale che ha reso a più indoor Wimbledon.

Il maestro Gianni Clerici, orgoglio del giornalismo italiano, sulle colonne di “Repubblica” vergò queste parole: “Per avere simili campi basta un rullo e cinque secoli di pioggia”. In verità fu lo stesso Clerici, entrato nella Hall of Fame del tennis di Newport, a coniare il neologismo “erba battuta” per indicare il cambiamento epocale di superficie avvenuto nel 2001: Eddie Seaward, capo giardiniere per due decenni, decise di cambiare mistura della semina passando dal loietto perenne-festuca 70%-30% a solo loietto inglese.

La conseguenza è che con un fondo terroso pressato e un manto erboso più regolare i rimbalzi delle palline si sono fatti più alti e lenti, il numero degli scambi è aumentato, sono scomparsi drop shot e lob così come il serve&volée e l’erba ingiallisce nei pressi della linea di fondo senza più creare quella “T” tracciata dalle continue discese a rete. Non è un caso, insomma, se giocatori come Nadal, che fanno della virulenta pelota il proprio tennis, hanno saputo imporsi cinquant’anni dopo i propri conterranei.

Gli immortali di questo sport hanno saputo vincere Wimbledon più di una volta in carriera, dal reverendo Renshaw, a Federer, da Borg alla Navratilova, dalle sorelle Williams alla divina Lenglen, senza scordare Pete Sampras e Helen Moody: ma guai a pensare che tra loro ci sia il tanto giornalisticamente famigerato “Migliore di tutti i Tempi”. Sarebbe come scartare Boccaccio a fronte di Dante o sacrificare quest’ultimo in nome di Petrarca.

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Alessandro Legnazzi