Decepção brasileira. Ovvero: il Brasile non c’è più
Il Brasile – nell’immaginario calcistico – è sempre stato sinonimo di talento al massimo grado, di squadra portentosa, di tecnica devastante, di giocatori eccezionali. Una volta, evocare i verdeoro significava parlare per antonomasia della squadra più forte del pianeta, ammirata sia per i risultati sia per un gioco coinvolgente e spesso spettacolare, talvolta addirittura scintillante. Il Brasile era quella squadra che potevi sperare di battere solo dando il 130% e pregando che incappasse in una giornata storta, una squadra al cui semplice leggere la formazione aumentavano le palpitazioni per il timore (ma anche l’attrattiva) che incuteva.
Ecco, nell’ultimo decennio il Brasile ha fatto incetta di Confederation Cup, ha rimediato solo eliminazioni precoci nelle ultime tre edizioni dei Mondiali e ha vinto una Copa América, quella del 2007. Quella Copa è anche l’ultimo trofeo davvero prestigioso che i verdeoro hanno portato a casa in ordine di tempo e, all’epoca, sedeva in panchina lo stesso uomo che vi siede oggi, Carlos Dunga. Se però otto anni fa la Seleção finì il torneo sollevando al cielo la palma di miglior squadra del Sudamerica, oggi Neymar e compagni non possono far altro che guardarsi corrucciati e delusi, consapevoli di aver rimediato una seconda e sonora batosta dopo i dieci gol (tra Germania e Olanda) incassati negli ultimi due atti dei Mondiali dello scorso anno.
Un’eliminazione dalla Copa América evitabilissima, arrivata già ai quarti di finale e patita ai rigori contro il sempre ostico ma tutt’altro che invalicabile Paraguay, gettando peraltro alle ortiche il vantaggio iniziale del redivivo Robinho (che quindi non ha fatto rimpiangere Neymar sotto porta: i suoi fan saranno comunque soddisfatti).
Niente da fare, pare proprio che la Nazionale verdeoro, negli ultimi tempi, sia lontana parente di quella ammirata lungo tutto l’arco della storia del calcio e che anzi sia come avvolta in una spirale discendente che sta intaccando anche quello che è il vero e proprio mito del Brasile come terra del futebol.
D’altra parte i risultati dicono questo e le convocazioni fatte dal nostro Dunga – che peraltro ha esibito contro il Paraguay un collo alto sotto la camicia in stile Howard Wolowitz probabilmente frutto del lavoro della figlia stilista – lo sottolineano anche: tra i giocatori chiamati dal CT ex Fiorentina e Pisa figurano tantissimi esordienti o quasi esordienti, ma questo è il meno (anche perché dopo il Mineiraço si può capire un rinnovamento radicale). Il problema è che la maggior parte di loro non sono eredi degni della tradizione brasiliana, fatta ovviamente eccezione per Neymar e pochi altri. Scorrendo i nomi della rosa, tolto il numero 11 del Barça (che pure ha deciso di non rendersi utile quest’anno), si trovano al massimo solo ottimi giocatori, non più almeno sette o otto superstar. Superstar, eh, superstar. Non giocatori “bravini”, “buoni” o “decenti”. Superstar. Letteralmente.
L’emblema di questa generazione problematica e inadeguata è in particolare la maglia numero 9, passata negli ultimi otto anni dalle spalle di Luís Fabiano a quello di Diego Tardelli passando per Fred. Buoni giocatori, intendiamoci, validi e anche affidabili (perlomeno alcuni). Ma là dove un tempo c’erano i Ronaldo, i Romário, gli Adriano (almeno finché è durato) oggi fa tristezza trovare un trentenne spaesato che in Europa non ha mai combinato niente di rilevante e che non ha mai conosciuto davvero la continuità di rendimento nemmeno in patria o per le sue peregrinazioni esotiche tra Qatar e Cina.
Un altro simbolo di questo Brasile così poco convincente è il solito e controverso David Luíz. Istrionico e istintivo, può giocare delle partite da migliore giocatore del mondo e altre da peggiore: peccato che nell’abituale roulette di possibilità fin troppo spesso si verifichi la seconda. È interessante che uno dei leader indiscussi dello spogliatoio verdeoro sia un simile personaggio, probabilmente anche carismatico ma tendenzialmente bisognoso di un baby-sitter al suo fianco che ne contenga l’anarchia e le scorribande folli (e pensare che ha addirittura iniziato la Copa da titolare relegando in panchina Thiago Silva…).
Provando a guardare al futuro con fiducia si può senz’altro supporre che questa sia semplicemente una fase che il calcio brasileiro sta passando – e probabilmente è così – ma senz’altro questa sta già intaccando il mito verdeoro.
Poco più di una settimana fa, commentando la finale dei Mondiali Under 20 (che il Brasile ha perso, guarda caso), Stefano Benzi sosteneva che non si possa ormai più parlare del Brasile come se ne è parlato per decenni perché la crisi tecnica che ha colpito la Nazionale maggiore da almeno sei o sette anni s’è estesa anche a quelle giovanili nell’ultimo lustro (più o meno). E infatti la Seleção Under 20 s’è ritrovata a competere per la vittoria contro la Serbia grazie anche a una massiccia dose di fortuna (c’erano almeno altre quattro formazioni che esprimevano un calcio migliore e avrebbero probabilmente meritato di più la finale).
In conclusione, ormai, si può forse azzardare che se il presente brasiliano non è particolarmente brillante, nemmeno l’immediato futuro offre però sufficienti garanzie di successo (anzi). Chissà, forse è il caso di iniziare a lavorare seriamente sulle generazioni non di domani ma addirittura di dopodomani, affinché il Brasile torni a occupare il posto che merita nel gotha del calcio.
Anche perché vedere una Seleção noiosa, sparagnina e tecnicamente povera fa proprio male al cuore.