L’immagine che più mi ha colpito di queste Finals, sino a questo momento, riguarda una sessione di tiro post gara 1, con LeBron protagonista ovviamente. Era accerchiato da così tanti giornalisti e fotografi che, a un certo punto, si faceva fatica a distinguere chi fosse lui: è mai esistito un giocatore con così tanta pressione mediatica addosso? Probabilmente no, ma considerato che a 17 anni era già stato sulla copertina del settimanale sportivo più importante d’America, deve averci fatto l’abitudine abbastanza presto. Nonostante questo, però, spiegare cosa sia accaduto in gara 2 e gara 3, successive a quella sessione di tiro, rimane un’impresa: nelle due partite più importanti della stagione per Cleveland, infatti, The Chosen One ha contribuito alla causa con 39 punti, 16 rimbalzi e 11 assist prima di chiudere, stanotte, con 40 punti, 12 rimbalzi e 8 assist.
Con Varejao, Love e adesso anche Irving fuori, è innegabile che Golden State abbia la squadra migliore sulla carta. La differenza, in questo momento, la stanno facendo i due leader: Stephen Curry, colui che ha trascinato la franchigia di Oakland a queste i finali, sta affrontando difficoltà incredibili nel tiro, la specialità della casa. E per una squadra abituata a giocare a ritmi altissimi e a concedere moltissime delle sue conclusioni al leader – così come a Klay Thompson – questo ha creato enormi problemi: perché un piano B forse non c’è, o almeno Steve Kerr non sembra averlo ancora mostrato in queste finali. Mentalmente, quindi, Curry è molto più che fuori da questa serie, così come Golden State in generale, perché dall’altra parte, ricordo, c’è una squadra che ha 3/5 dell’ipotetico quintetto titolare d’inizio stagione in infermeria.
Cosa spinge i Cavs a dare tutto sino alla sfinimento, come avvenuto questa notte per Dellavedova che, dopo la partita, è stato portato all’ospedale per crampi? Oltre alla motivazione più importante, l’anello di campione NBA, c’è la consapevolezza di una squadra che penda dalle labbra del proprio leader e cerchi di seguirlo in tutto per tutto, sia come atteggiamento che a livello tecnico: l’australiano che, per usare un eufemismo, non gioca a questi livelli per le sue capacità balistiche, stanotte ne ha infilati 20 con qualche canestro da veterano, come se a questo livello ci giocasse da anni e anni, aggiungendo anche 5 rimbalzi e 4 assist al suo tabellino personale.
La cosa paradossale in tutto questo è che, nonostante questa lunghissima premessa, nonostante l’essere sotto 2-1 nella serie, nonostante LeBron James, Golden State continui a essere favorita. Perché prima o poi Curry e Thompson giocheranno una partita intera – e non solo spezzoni, come stanotte – ai livelli della regular season, perché LeBron James non può continuare a viaggiare in tripla doppia di media con 40 punti realizzati, così come i comprimari di Cleveland dovranno per forza di cose iniziare a sentire la stanchezza accumulata a causa di una rotazione cortissima e una panchina sempre più ridotta all’osso da infortuni e acciacchi.
Gara 4 non sarà un “win or go home”, ma poco ci manca. Perché Cleveland una partita nella Baia l’ha già vinta, e tornare a Ovest sul 3-1 avrebbe risvolti psicologici alquanto complicati per i già poco esperti – a questo livello – Curry e Thompson. In caso di 2-2, invece, tutto sarebbe riaperto e, probabilmente, il titolo finirebbe per andare alla squadra più forte, cioè i Warrior. Sempre che LeBron James non continui a far registrare medie da capogiro, come solo i più grandi della storia di questo sport hanno fatto: e se il paragone con i mostri sacri del passato, sino a cinque anni fa, era da ritenersi esagerato sotto molti punti di vista, mi chiedo se saremo della stessa opinione quando si ritirerà tra qualche estate.