Eroe per caso (ma non troppo)

Una finale di Champions regala per forza di cose tante storie e tante suggestioni.

Del resto è semplice: l’epica che una simile partita trasuda finisce per esondare dai labili confini dei 90 minuti (salvo supplementari) e quindi cola oltre il racconto del semplice fatto tecnico fino a farsi raccogliere dalla Storia, unica cornice in grado di contenere tutti gli spunti narrativi che ogni ultimo atto della Coppa dei Campioni trascina inevitabilmente con sé.

Ieri sera abbiamo assistito a tantissimi incroci di storie interessanti, dalle più note (la continua favola di un ragazzino argentino col 10 che – passo dopo passo – si avvicina sempre più all’Olimpo o la rivincita di Gigi Buffon, tornato a una finale così prestigiosa dopo dodici anni di pensieri e di desideri sussurrati) a quelle che si conoscono meno. Parlare in questa sede di Messi o del portierone bianconero sarebbe però persino troppo facile – per non dire delle sviolinate già commemorative della pur coraggiosa partita della Juve tutte catalogabili più o meno precisamente sotto la voce “retorica della testa alta”. No, meglio volgere la nostra attenzione a uno degli attori principali di questa finale ma che, probabilmente, passerà sotto silenzio rispetto ai vari Neymar, Iniesta, Suárez o Messi stesso. Almeno in Italia, dove anzi troverà giustamente spazio un tributo alla Juventus sconfitta ma non spezzata che ha regalato un gran bel sogno ai suoi tifosi.

Eppure Ivan Rakitić è stato decisivo anche ieri sera. Anzi, il croato ex Siviglia è stato nettamente uno dei giocatori migliori di tutto il Barça di quest’anno e meritava nel modo più assoluto la nobile gratifica di un gol (decisivo, repetita iuvant) nella finale dell’Olympiastadion berlinese. Ora la vittoria della Champions, arrivata a 27 anni, lo consacra definitivamente come uno dei migliori (ma anche più sottovalutati) centrocampisti d’Europa.

Forse è poco appariscente, forse non è una mega star come (tanti) altri suoi attuali compagni di squadra ma il buon Rakitić è nettamente uno dei giocatori più migliorati dell’ultimo triennio e, in generale, è stato uno dei rari talenti balcanici capaci di mantenere fino in fondo tutte le aspettative di inizio carriera. Una carriera che il biondo numero 4 blaugrana s’è goduto col giusto ritmo, senza mai farsi prendere dalla smania di arrivare nonostante il calcio odierno sia così bulimico e desideroso di incontrare un nuovo campione ogni tre giorni. Una carriera fatta di poche tappe scelte con cura. delle fermate necessarie per costruire un viaggio fin qui esaltante. Prima la culla di Basilea, poi l’accogliente Schalke 04, preferito a varie big europee per poter giocare con continuità e maturare con calma anche senza uno stipendio da urlo (e mettere su un po’ di chili in un torneo ruvido come la Bundesliga).

Dopo è arrivata Siviglia, dove l’ex bambino prodigio conteso dalle federcalcio di Croazia e Svizzera non solo è migliorato ma ha anche imparato a essere leader tanto in campo quanto nello spogliatoio, crescendo soprattutto come uomo. Al Ramón Sánchez Pizjuán la lezione principale è stata il sacrificio: si può anche avere molto talento ma se non corri e non ti applichi non arrivi da nessuna parte. Rakitić, elegante centrocampista offensivo con una naturale reticenza all’atletismo puro, ci si è però messo di buzzo buono, imparando a lottare e soffrire anche qualche metro più indietro rispetto alla trequarti avversaria. Ed ecco che gli sforzi hanno dato i loro frutti: 149 presenze, 32 gol e 41 assist, un ultimo anno vissuto da capitano sotto la guida illuminata di Unai Emery e terminato con il meritato successo in Europa League.

Poi, finalmente, ecco Barcellona, il top club adatto a lui ma solo quando lui ha avuto davvero la giusta maturità per esserne all’altezza. Il Barça non è una semplice società ma piuttosto un’istituzione, non necessariamente solo calcistica. Impossibile inserirsi come ci si inserirebbe in qualsiasi altro spogliatoio, meglio tenere un basso profilo e lasciar parlare il campo anche perché non in pochi hanno storto il naso al momento dell’acquisto. Però il campo, in effetti, qualcosa ha detto.

Sostanzialmente, più o meno da subito, il croato è diventato un imprescindibile per Luis Enrique, riuscendo a spostare definitivamente in panchina anche un maestro leggendario come Xavi (il suo predecessore con la maglia numero 4, il catalanissimo Fàbregas, ha dovuto adattarsi a giocare in mille altre posizioni per scendere in campo. Per dire), lasciando solo le briciole a uno storico “cocco” dell’ex allenatore della Roma come Rafinha o a un canterano promettente come Sergi Roberto.

A oggi, infatti, Rakitić è semplicemente insostituibile per il gioco catalano: là in mezzo corre per tutti, sopperendo a un Iniesta che ha ormai iniziato a gestirsi atleticamente e ai pochi ripiegamenti dei tre fenomeni che stanno davanti. Il tutto senza rinunciare a un’oncia di tecnica e creatività, aggiungendo anzi una capacità d’inserimento continua e inedita per una mezzala culé. In pratica, il croato è diventato un giocatore totale e la finale di ieri l’ha dimostrato una volta di più.

Oggi Ivan probabilmente riposerà serenamente, cullando nella sua mente il ricordo fresco ma già esaltante di un biennio vissuto ai vertici e di un Triplete che l’ha visto assoluto protagonista come erede di Xavi, diversissimo dal genio di centrocampo catalano e proprio per questo degno della nomina (del resto un nuovo Xavi con quelle caratteristiche nascerà tra cinquant’anni. Forse).

Ah, tra l’altro: tra nemmeno una settimana la Croazia di Rakitić giocherà contro l’Italia. Non sarà meglio mandare a memoria la lezione di ieri sera il prima possibile?

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Giorgio Crico