La differenza tra trascinare ed esagerare
Si può criticare la prestazione di un giocatore che realizza 27 punti, raccoglie 7 rimbalzi ed è probabilmente l’unico a portare davvero l’acqua al mulino della propria squadra? Sì, eccome. Perché Alessandro Gentile è un leader naturale, oltre che essere un giocatore tecnicamente fuori dal normale, almeno in Europa: ed è giusto quindi aspettarsi che trascini la propria squadra, non che l’affossi con un atteggiamento da superstar che, soprattutto a certe latitudini, lascia un po’ il tempo che trova. Milano non sta disputando una buona semifinale, troppe volte è Sassari a sembrare la squadra con la rosa migliore e la panchina più profonda, quando non è assolutamente così: tutte le difficoltà viste in Eurolega qualche settimana fa, inoltre, si stanno riproponendo con una frequenza preoccupante per Banchi, come se la propria squadra andasse in corto circuito quando c’è da fermarsi, ragionare, e rendersi conto di avere per davvero qualcosa da perdere. Non aiuta di certo che i due playmaker, Hackett e Ragland, siano in realtà due guardie adattate che, troppo spesso, finiscono per rendere ancora più confusa l’azione, invece di pulirla e semplificarla: e se nella scorsa stagione c’era Jerrells a togliere le castagne dal fuoco, quest’anno l’ex canturino non sembra in grado di prendersi tiri pesanti, generati soprattutto dopo le penetrazioni degli esterni.
Ne esce fuori, quindi, uno scenario davvero difficile per Milano. Confusione in attacco che, automaticamente, genera palle perse e troppe possibilità di contropiede per gli avversari: e se già l’Olimpia non è conosciuta ai più per avere difensori eccellenti, i troppi turnover non fanno altro che mettere ancora più in evidenza questa lacuna. Cosa fare, allora? Dall’altra parte dell’oceano direbbero “share the ball”, condividere il pallone con i propri compagni di squadra. Perché attaccare la difesa 1 contro 5, come stanno facendo Gentile e Brooks, porterà forse a statistiche personali ottime, ma di certo non è la strada che può portare al secondo scudetto consecutivo. Vivere di isolamenti è una sorta di cane che si morde la coda: nessuno si fa vedere? Benissimo, allora sono autorizzato ad attaccare la difesa avversaria come se fossi al campetto sotto casa. Ma forse è proprio questa tendenza eccessiva che non stimola i compagni a effettuare il taglio giusto al momento giusta, o a portare il blocco con la dovuta intensità per permettere agli esterni di avere tiri con metri di spazio. Se davvero Gentile vuole avere la chance di ritagliarsi un posto anche in America, inoltre, è necessario che questo miglioramento avvenga il più presto possibile: perché difficilmente troverà, dall’altra parte, allenatori disposti a sopportare atteggiamenti simili. Specie perché, effettivamente, non si può negare che il ragazzo sia anche un passatore di livello, quando vuole; e allora perché autolimitarsi, quando già ci saranno fattori esterni che metteranno in serio pericolo il suo futuro oltreoceano?
Un discorso che, decisamente a un altro livello, ha dovuto affrontare anche LeBron James, uno dei due protagonisti più attesi per le prossime NBA Finals. Prima del 2012, anno in cui riuscì a vincere il suo primo titolo, la sua colpa più grande era quella di non aver capito che i quattro compagni con cui condivide la canotta, seppur non siano al proprio livello né a quello degli avversari, sono comunque l’alleato più grande. Le grandissime prestazioni individuali nei playoff – a Detroit con la maglia di Cleveland, tanto per citarne una – vennero sostituite con assist a manetta per i vari Mike Miller, Shane Battier e, perché no, anche James Jones. Gli stessi gregari che, se avessero avuto la sfortuna di giocare insieme alla prima versione di LeBron James, probabilmente sarebbero rimasti ad aspettare la palla nell’angolo, invece di diventare protagonisti di una squadra vincente. Trascinare una squadra vuol dire portare i compagni con se, non affossarli insieme al proprio ego.