Cala il sipario sulla Serie A, finalmente, viene da dire. Per una regina indiscussa cui sono stati sufficienti oltre dieci punti in meno rispetto alla passata stagione per mantere lo scudo sulla divisa, un florilegio di damigelle a dir poco scarmigliate, quasi mai in grado di reggere il passo della migliore, rendendone il cammino assai meno impervio del prevedibile. Max Allegri incassa e ringrazia, e ne ha ben donde: giunto a Torino tra mugugni e sorrisetti, ha saputo entrare in punta di piedi in uno spogliatoio non facile, sfruttando tutte le opportunità che la sorte gli ha voluto presentare. E la resistenza molle in campionato e un tabellone non irresistibile sino alla semifinale di Champions sono state circostanze certo non nemiche alla stagione del rilancio del tecnico labronico. Applausi alla Juventus, quindi, e meritati, benché il trionfo domestico della Signora abbia il gusto un po’ insipido d’una stagione in cui sono venute a mancare delle oppositrici credibili.
Per alcune, si può parlare di ridimensionamento e autentica delusione: la Roma protagonista di un buon mercato estivo (l’acquisto di Iturbe sembrava il colpaccio ai danni della Juve, costretta a ripiegare sul tuttocampista Pereyra: prospettiva adesso ribaltata) si è involuta e italianizzata, a partire dal suo allenatore, che ha chiuso l’annata ammettendo come certe dichiarazioni pubbliche siano strategie di destabilizzazione ambientale dell’avversario; il Napoli, partito male con l’eliminazione di Bilbao, non è praticamente mai riuscito a trovare quadratura e passo, chiudendo con un zero tituli ancora più cocente in considerazione sia dell’eliminazione in semifinale di Europa League sia del mancato terzo posto; a questo, si aggiunga poi il bilancio negativo nel confronto tra i risultati in campionato di Benítez e quelli della gestione Mazzarri.
Un po’ meglio la Lazio, tra le note migliori di questa strana Serie A, venuta meno sul più bello, fallendo un approdo diretto alla Champions che, per un buon tratto, non è affatto sembrato un miraggio. La delusione ci pare bruci in quel di Firenze, per una Viola mai come quest’anno senz’anima: a marzo sembrava essersi ripresa, lanciata su tre fronti; poche settimane dopo, l’arenamento più totale, col rimpianto d’una semifinale di Coppa Italia gettata non al vento, ma agli “odiati” avversari in bianconero, e lo 0-5 rimediato dal Siviglia nel doppio confronto europeo.
Se Genova sorride, meno di quel che potrebbe, con l’ennesimo guazzabuglio in chiave continentale rappresentato dalla situazione del Grifone, Milano piange lacrime tanto amare e copiose da annebbiar qualsiasi sguardo gettato al futuro: in nerazzurro, l’unica mossa azzeccata dalla gestione Thohir (evitando ironie sui prestiti all’8%) ci sembra la chiamata di Mancini, il quale ha comunque totalizzato meno punti di Mazzarri; dalle parti di Milanello, si è costretti ad assistere a dinamiche da caduta imperiale, col terrificante sospetto di un’altra stagione nè carne né pesce.
La pancia del gruppo ha riservato pochi spunti gioiosi per gli adoratori di Eupalla: l’apprezzamento per l’Empoli di Sarri (rivendichiamo la fiducia manifestata sin da settembre, permettendoci il lusso di conoscere anche qualche limite dell’allenatore rivelazione di quest’anno), l’esplosione (prevista) di Dybala per un Palermo salvo a dispetto degli aruspici agostani, la conferma del Sassuolo, provinciale, sì, ma non proprio società priva di mezzi economici.
In un panorama tanto uggioso, come se non bastasse, anche la lotta per non retrocedere è stata arida di emozioni: chiusa con largo anticipo e pochi dubbi, risultato di quell’anomalia grossolana rappresentata dal Parma fallito e giocante, vero e proprio Dead Man Walking trasformatosi talvolta in zombie a mietere vittime sul suo cammino. Qualcuno si è pure lamentato di tanta lealtà sportiva, compiendo, a nostro avviso, un clamoroso errore prospettivo: l’anomalia degli emiliani è stata quella dei 6 punti alla sedicesima giornata, non certo il discreto rendimento sulla spinta dell’orgoglio di un organico che, un anno fa, aveva conseguito un ottimo sesto posto.
È per queste ragioni che, provando a sbirciare il cielo sopra Berlino, difficilmente riusciamo a sorridere e, anche nel caso in cui Max Allegri riuscisse in un’impresa clamorosa, non vorremmo sentire nessuno proferire frasi circa la “rinascita del calcio italiano”. Una grande vittoria, pur moltiplicata per tre, non può regalare certezze di sorta: si pensi al triplete nerazzurro e ai bocconi amari, amarissimi, succedutisi. Il calcio italiano è ancora in crisi: di prospettive e sviluppo, ancor prima che di risultati, e il materiale umano che ne dovrebbe risolvere i problemi non ci pare possa alimentare suggestive speranze.