Esperienza. Una parola, una semplice parola, che nel calcio è usata, strausata e forse anche abusata. Eppure, guardando alla nostra Serie A, sia per quanto concerne la sua classifica sia per la ricorrenza con cui appare nelle parole degli addetti ai lavori, è impossibile non pensarla.
Per esempio, è notizia della sera di ieri, Roberto Mancini è convinto che sia proprio la mancanza di esperienza una delle più grandi pecche della sua Inter, lo ha ribadito non più tardi di qualche ora fa, in conferenza stampa. Nella scelta delle parole fatta dal Mancio di fronte ai giornalisti è riscontrabile una quasi perfetta sovrapposizione (e quindi un’interscambiabilità conseguente) tra le espressioni “giocatore forte” e “giocatore esperto”, quasi come se un calciatore non potesse essere valido senza esperienza, come se solo una certa maturità tecnica potesse certificare il valore di un elemento.
Magari si trattava solo di una coincidenza dovuta al contesto a cui il discorso del tecnico jesino faceva riferimento, la necessità che ha il suo undici servano giocatori al contempo validi ed esperti, ma anche se si trattasse di un lapsus la scelta linguistica rimarrebbe comunque interessante e degna di nota, soprattutto perché vera, in estrema sintesi. Difatti, senza esperienza non si vince.
Proprio quel Massimiliano Allegri che ha sconfitto lo stesso Mancini ieri sera e, dopo aver festeggiato il tricolore coi suoi, si appresta a giocare anche la finale di Coppa Italia e – soprattutto – di Champions League per una tripletta che significherebbe, semplicemente, storia, ha saputo rendersi protagonista di un stagione giù speciale e che può diventare leggendaria grazie alla sua esperienza, che gli ha consentito di non stravolgere il lavoro di Conte prima e di riqualificarlo poi adattando la squadra ereditata dal mister salentino al suo credo tattico. Una maturazione di squadra arrivata grazie alla perizia di Allegri, che ha unito un pizzico di furbizia alla sua conoscenza di campo.
A ciò va aggiunta anche l’esperienza collettiva della sua rosa, che non a caso ha in Buffon, Pirlo, Chiellini e Tévez, protagonisti di mille battaglie, i suoi pilastri fondamentali ma non solo. L’intero insieme dei giocatori ha accumulato conoscenza e abitudine a certi contesti durante gli anni di Conte (sì, anche in Europa) e quest’uso alle partite decisive ha finalmente fatto deflagrare il potenziale della squadra anche a livello continentale solo in questa stagione: se la Juventus appare una macchina perfetta oggi è perché ha passato diverse vicissitudini in cui perfetta non era e, anzi, aveva bisogno di mettere parecchi chilometri nel motore.
In Italia, ormai, le miglia percorse da realtà dominante sono talmente tante che la Vecchia Signora può persino concedersi il lusso di giocare una partita onestamente mediocre a San Siro, subire per un tempo, e vincere quasi senza sforzo. Quasi una vittoria di solo cinismo, resa appunto possibile anche dalla maggiore esperienza bianconera a sopportare lo stress, a cercare l’obiettivo anche quando non ne si hanno troppa voglia, tante distrazioni o energie sufficienti; a Milano la Juventus ha vinto da squadra adulta, dimostrando a un’Inter in piena preadolescenza come si ottengono i risultati. Se n’è accorto infatti Mateo Kovačić, che ha definito «Gol da bambini» quelli incassati dai suoi, indovinando alla grande il termine più adatto a indicare sé stesso e i suoi compagni se paragonati agli adulti e maturi bianconeri.
Ulteriore declinazione di esperienza che ci offre la Serie A è ovviamente Francesco Totti, prepotentemente rientrato al centro del dibattito calcistico a causa delle ultime panchine che lasciano presagire un ritiro vicino per il capitano giallorosso. Chissà se stasera, contro l’Udinese, il Pupone scenderà in campo dal primo minuto o entrerà a gara in corso come contro il Milan. Intanto però le opinioni si sprecano: c’è chi prevede per lui un futuro alla Altafini nel periodo juventino, chi caldeggia un ritiro immediato, chi preferirebbe rimandare all’infinito una Roma in campo senza il dieci. Curiosa escalation, no? Un anno fa, quando la squadra di García stupiva tutti e macinava punti su punti, l’esperienza di Totti era vista come un valore aggiunto, oggi per tanti è ormai sinonimo di vecchiaia. Chissà cosa ne pensa lui.
Infine, nonostante non giochi in Italia, è impossibile non dedicare due righe a un uomo che, come Totti, non rappresenta solo l’esperienza calcistica ma anche un’esperienza culturale, sociale, epica. Si tratta ovviamente di Steven Gerrard, calciatore già leggendario e storico simbolo del Liverpool del nuovo millennio.
Il numero 8 dei Reds non calcherà mai più il campo di Anfield quale giocatore e capitano del Pool, non batterà più nessun angolo sotto la Kop, non ascolterà mai più You’ll never walk alone dal campo dopo aver conquistato i tre punti. E, forse, la cosa più triste del suo addio (già di per sé struggente, melanconico e molto romantico come solo quello di una bandiera dai contorni mitologici può essere) è che non lascia il Merseyside in un buon momento, né personale né di squadra. Perché quest’anno, per Stevie G, davvero la sua esperienza ha significato poco più che vecchiaia. Tanti, troppi errori e dopo la scivolata dell’anno scorso o la sofferenza dei Mondiali in Brasile tutto meritavano lui e i suoi fan tranne che assistere a una fase ancor più avanzata del declino di The Captain.
Eppure, nonostante tutte le battaglie vissute e tutte le partite giocate, Gerro non ha saputo dire basta in tempo per risparmiare questo strazio ai tifosi (che grazie al Cielo hanno però memoria corta e dimenticheranno in fretta questa stagione per ricordare invece i suoi screamer da distanze impossibili o la notte di Istanbul) e a sé stesso (che invece non dimenticherà troppo in fretta il biennio 2013/2015, probabilmente).
Come insegna il caso di Gerrard, infatti, l’esperienza è una brutta bestia: chissà come mai, non ne si fa mai abbastanza.