Cinque anni fa, l’Inter pigliatutto si avviava alla conclusione della stagione più bella di sempre. La sua stagione più bella di sempre, ovvio, perché ad altri all’estero era capitato di vincere tutto e tutto insieme, ma la più bella per quanto riguarda il calcio italiano. Una squadra pazzesca, costruita un po’ con il budget di Moratti quando spendeva alla Moratti, e un po’ con quelle occasioni che ti capitano una volta nella vita, che devi saper cogliere. Di cui devi approfittare senza pensarci due volte, quegli “scarti” di lusso, usciti dalla bulimia delle grandi europee, a volte troppo frettolose nel fare affari tanto per farli: Sneijder ed Eto’o su tutti, per un’Inter da grandeur.
Tra San Siro, Barcellona e Madrid, sparirono i decenni di attesa, gli sfottò sulle Coppe Campioni vinte in bianco e nero, l’ironia su titoli di cartone, tricolori a metà, purezza degli albi d’oro. Era un’Inter quadrata, con gli attributi, forte muscolarmente e tecnicamente; capace, soprattutto, si soffrire, di uscire qualificata da un campo sostanzialmente ingiocabile come il Camp Nou, e di lasciare poi che gli dei del calcio completassero l’opera. Ci si misero anche la fortuna e qualche combinazione astrale, uno o due episodi girati dalla parte giusta – ma trovatemelo, un trionfo che ne sia privo – ma era una squadra da leggenda.
Adesso è il turno della Juventus, che come quell’Inter ha smentito tutti i pronostici. Perché poi bisogna ricordarselo che i nerazzurri Chelsea e Barcellona le affrontarono senza i favori del pronostico, nonostante tutto il denaro investito in quegli anni. Ultimo colpo di coda di un calcio italiano di lì a breve condannato all’oblio europeo (almeno sino a quest’anno), il 2010 fu l’anno della passione e dei gufi, degli “almeno noi ci siamo, voi la guardate in televisione” e degli inviti a pensare al ranking, ridicoli allora come oggi. Ricorda qualcosa?
Passata per le forche caudine dei terzi posti vissuti come uno scudetto, dei trionfi di quelle Milan (2003 e 2007) e Inter (2010) capaci di fare ciò che non le riesce dal 1995, la Juve come club e come squadra s’è rinnovata, e ha iniziato da lontanissimo a lavorare per Berlino. Dai primi progetti per lo stadio di proprietà – vera innovazione e simbolo di un calcio italiano che sa anche rinnovarsi e ripensarsi – alle occasioni sul mercato, dando fiducia all’ossatura di una Nazionale leggendaria e brillante in Germania e Polonia e Ucraina quanto desolante in Sudafrica e Brasile, questa società ci ha messo tantissimo a iscriversi al tavolo dei grandi. Mangiando spesso in quello dei bambini ma fino in fondo pensandoci, a questa idea di dominare in campionato, e diventare un piccolo Bayern. Ancora più di quell’Inter, la Juventus di Conte prima e Allegri poi ha spazzato via tutta la concorrenza interna, affacciandosi sull’Europa, lasciando le grandi rivali di sempre indietro, in un mondo tutto loro.
Perché la situazione non solo è cambiata ma s’è capovolta, alla Juve umiliata dal piccolo Fulham è succeduta un’Inter in crisi d’identità, perennemente instabile, tradita dall’eco di quel trionfo del 2010 e da scelte schizofreniche sul mercato. Ci troviamo di fronte un club che il rinnovamento di cui sopra lo vorrebbe vivere, ma manca di volontà o possibilità; l’ottava forza che guarda i rivali più acerrimi – anche per le frizioni del dopo Calciopoli – dal basso verso l’alto, staccata di 28 punti: distanza irreale, come quella tra due pianeti diversi.
Per questo, per i ricorsi storici, per la stranezza di un Inter-Juventus con i bianconeri con la testa alle finali di Coppa Italia e al timore infortuni, per tutto il tempo che è passato e per il mondo che s’è capovolto in soli 5 anni … Buon derby d’Italia, se dirlo ha ancora un senso.