Andiamo a Berlino, Beppe
Chissà se gliel’avrà urlato nell’orecchio il presidente Agnelli o magari qualche collega, qualche amico al telefono. “Andiamo a Berlino, Beppe! Andiamo a Berlino!” E chissà se Marotta avrà risposto come fece Bergomi a Caressa quasi dieci anni fa, nella magica notte del Westfalenstadion di Dortmund: urlando a squarciagola, a pieni polmoni. Quella volta c’era una nazione intera che tifava Italia; quella volta, Grosso e Del Piero fecero esultare tutto il Paese, da nord a sud. Quella volta, in campo c’erano Pirlo e Buffon. Proprio come ieri sera, quando in campo c’erano… già, Pirlo e Buffon.
Estadio Santiago Bernabéu, Madrid, anfiteatro di una tifoseria carica e impaurita. La Juventus si presentava come la sfavorita delle contendenti, quella che chissà come era riuscita a strappare una vittoria ai Galácticos, una settimana prima, allo Stadium. Il discorso Scudetto era già in archivio da una settimanella abbondante, la Coppa Italia è lontana e non era un pensiero predominante, insomma: alla vigilia della notte madrileña, l’unico grande pensiero nella testa dei ragazzi di Allegri era come riuscire a salire sull’aereo di ritorno per Torino con il pass per Berlino in tasca.
Il modo di farlo era uno e uno soltanto: scendere in campo compatti, consci di dover soffrire, ma consapevoli soprattutto che si sarebbe dovuto rischiare. Allegri è stato impeccabile: ha dimostrato ancora una volta di aver finalmente, e definitivamente, reso la Juventus matura, ha tenuto a bada la squadra come un gaucho alle prese con il cavallo più ostile del rodeo, ha evitato cali di tensione o di fiducia, ha saputo caricare la squadra nei momenti più difficili (il rigore subìto, e il conseguente gol di Ronaldo), ha scelto in maniera intelligente le pedine, ha insomma saputo dirigere l’orchestra bianconera con stile, eleganza e precisione. Inoltre, ha saputo sfruttare le energie, ma non solo in questa partita, in tutta la stagione: è impressionante notare come la Juventus sia sembrata fresca, sia fisicamente che mentalmente, in una partita giocata in un clima più che estivo (35 gradi centigradi) e giunta quasi alla fine di un’annata in cui non si è smesso veramente mai di correre. E fa nulla se non è stata una bella Juve, quella del Bernabéu: è stata cinica, tenace, incisiva, cattiva, caparbia, vincente. Ha fatto male e si è difesa, ha lasciato Ancelotti a mani vuote (e con molta probabilità senza panchina a fine stagione), ha piazzato l’acuto vincente con uno dei suoi uomini quest’anno più rappresentativi, che guarda caso è ancora un tesserato del Real Madrid.
Non ha esultato per rispetto, Morata. Esternamente. Perché dentro di sé, invece, è impossibile che non si sia lasciato andare a un’esplosione di gioia. Chiunque indossi quella maglia o quella divisa, quest’anno, non può non sentirsi parte di un progetto vincente a tutto tondo: non solo in Italia, ma anche in Europa, e di conseguenza nel mondo. “Andiamo a Berlino!” Hanno cantato i giocatori di Allegri a fine gara, pazzi – ma non saturi – di gioia per una finale agguantata con rabbia e voglia, 12 anni dopo l’ultima volta. Hanno gioito a lungo negli spogliatoi, e lo hanno fatto con addosso ancora la divisa con la quale hanno fatto l’impresa. Divisa, guarda caso – o guarda la scaramanzia… – che era ieri sera di un azzurro parecchio simile a quell’altro azzurro che una decina di anni fa colorò, in profondità, tutto il cielo sull’Olimpiastadion.