Si chiamava Ilunga Mwepu e se ne è andato in questi giorni. Per chi non ha letto la notizia potrebbe essere un nome nuovo, ma in realtà si tratta del protagonista di uno degli episodi più famosi e controversi della storia dei Mondiali.
E’ una storia che ha molti protagonisti illustri, individuali e collettivi, carneadi e campioni, squadre e regimi. Successe nel 1974, in Germania, in una competizione che stava vivendo l’epifania di Crujff, l’incanto del Calcio Totale e l’avvento di una modernità calcistica che sembrava in grado di rivoluzionare l’assetto tassonomico dei satelliti orbitanti intorno alla sfera di cuoio, in attesa che la Controriforma teutonica ristabilisse l’ordine padronale, mediante bolla siglata dal kaiser Beckenbauer. Per la prima volta nel mondo del calcio, andava in scena, a emisferi unificati, la sfida tra i grandi sistemi tattici uomo e zona, destinati a inseguirsi come highlanders nei decenni a venire.
E proprio mentre il mondo si attardava a scoprire nell’innovazione calcistica i reverberi della propria modernità, in località Gelsenkirchen, andò in scena un altro confronto, tanto originale quanto prevedibile nell’esito. Da una parte lo Zaire, prima squadra africana ad approdare a quell’Expo universale del pallone che è il mondiale, dall’altra il Brasile, re leone della foresta calcistica, campione in carica e già vincitore di tre edizioni del torneo.
Del calcio africano si sapeva ben poco, le occasioni per una reciproca conoscenza erano state fuggevoli e quanto trapelava sullo Zaire era frutto per lo più dell’immaginazione esotica o del pregiudizio atavico. Eppure lo Zaire aveva conseguito la vittoria della Coppa d’Africa nel ’68 e nel ’74 stesso. Tra i giocatori che avevano preso parte al successo stagionale, anche il ventiseienne terzino Mwepu.
Ma l’impatto con il Mondiale fu durissimo. Dapprima una sconfitta contenuta con la Scozia, 2-0, poi un tracollo senza precedenti contro la Jugoslavia: un umiliante 9-0 che aveva precipitato al suolo i sogni degli africani, giunti in Germania sognando gloria e soldi.
Del Brasile si sapeva invece tutto. Per la prima volta dopo cinque edizioni, si presentava senza Pelé, ma nondimeno con le consuete ambizioni, potendo contare sulla consueta rosa di talenti funambolici. Il primo dei quali, era sicuramente Rivelino. Mito vero del calcio brasiliano, paulista, dotato di uno dei sinistri più sensibili della storia intera del calcio. Fu lui l’inventore del dribbling “flip flap”, anche detto a elastico, che tante volte abbiamo visto poi a Ronaldinho. Oltre a questo, come se non bastasse, possedeva il soprannome di “patada atomica”, letteralmente “scossa atomica”, per la potenza delle sue punizioni. Proprio nell’incontro inaugurale del torneo del ’70, aveva dato un saggio di questa specialità, fulminando il portiere della Cecoslovacchia con un tiro invisibile a occhio nudo.
Date tali premesse, nel momento in cui le due squadre si trovarono di fronte, non era in discussione chi avrebbe vinto. Tanto più che il Brasile aveva ancora in ballo la qualificazione e necessitava di segnare tre gol per passare il turno.
E quando sul risultato di 3-0, all’85’, Rivelino sistemò la palla a terra, apprestandosi a calciare una punizione da posizione favorevole, la conseguenza necessaria parve a tutti scontata, come un poker pescando da un mazzo di carte uguali.
Accadde allora l’impensabile. Per chi volesse vedere il fatto, qui, un breve video . Mentre l’arbitro si attardava a tracciare la distanza e impartire le ultime disposizioni, in un mugugno di stupore Ilunga Mwepu si staccò dalla barriera correndo, piombò sul pallone e la scagliò il più lontano possibile. Lo stadio rimase incredulo, i brasiliani non trattennero le risate, Mwepu prese l’ammonizione dall’arbitro. Tuttavia riuscì a perdere qualche minuto, la concentrazione degli avversari si affievolì e la punizione finirà nel deposito delle occasioni perdute. Al termine della partita, il risultato non sarebbe più cambiato, 3-0, quanto bastava al Brasile.
La stampa rimase esterrefatta dal gesto e non lesinò giudizi postcolonialisti sullo stato evolutivo del calcio africano e non solo di quello. Quando poi, anni dopo l’avvento di internet ripropose il gesto al pubblico world wide, il sottotitolo fu invariabilmente “la punizione più comica di sempre” o altro in linea con lo sbigottimento tramandato.
In realtà Ilunga Mwepu aveva appena salvato la vita a sé, ai propri compagni e probabilmente alle proprie famiglie.
Il retroscena, oggi ampiamente e meritoriamente divulgato dagli story teller mediatici, ci riporta alle condizioni politiche dello Zaire del tempo. All’epoca lo Zaire era retto dal dittatore Mobuto, che aveva preso il potere eliminando fisicamente il progressista Lumumba, grazie a un golpe appoggiato dagli Stati Uniti. Oggi ritenuto il prototipo del dittatore africano, rapace, feroce e sanguinario nella propria detenzione dispotica, Mobuto non aveva gradito la brutta figura patita contro la Jugoslavia. E per farlo sapere ai giocatori, aveva inviato in Germania alcuni suoi uomini, latori di un messaggio preciso: “se con il Brasile ne prendete più di tre, non tornate più a casa”. Sul seguito della minaccia, si potevano avere pochi dubbi.
Quello che per molti fu un gesto inspiegabile e selvaggio, in realtà fu uno scatto verso la vita. Il gesto estremo di chi, intravedendo la propria fine distante pochi giri di palla da un incrocio, sentì di dover fare qualcosa. E chissà che nel trambusto conseguito, i giocatori dello Zaire non abbiano trovato anche il modo di farsi capire dalle stelle brasiliane, invocando una misericordia disperata.
Mwepu raccontò la verità dei fatti molti anni dopo, dopo la deposizione di Mobuto, che nel frattempo aveva continuato a regnare sullo Zaire, depredando a fini personali le ricchezze del paese. Per cancellare l’eco dell’episodio, poco dopo Mobuto organizzò e ospito a Mombasa l’incontro di boxe più famoso di sempre, tra Foreman e Mohamed Alì.
Mwepu invece tornò in patria con i suoi compagni, nel discredito e nel biasimo collettivo, ma vivo. Un pazzo per l’occidente, un coraggioso eroe, nel segreto della storia vissuta. Ed è così che lo vogliamo ricordare oggi, quarantuno anni più tardi.