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Luca Vanni – ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il tennis

Nel tennis, non esiste condizione più subdola di quella nella quale finisci confinato quando i risultati che ottieni non corrispondono alle tue aspettative. Luca Vanni in questo limbo ha sostato parecchio: tra un mese 30 anni, l’aretino ha vissuta un‘ostinata carriera da tennista di secondo piano, divisa tra complicate trasferte extra-continentali e infortuni indesiderati. Nel cassetto però sempre lo stesso sogno, cullato all’ombra dello schema servizio-dritto, il suo preferito: affacciarsi nel tennis che conta, anche solo per vedere un po’ che aria tira.

Quella di Luca è una storia di tennis atipica che non parla di allenatori contestati da genitori impazienti e promesse di gioventù disattese; nessun circolo borghese dai giardini ben curati in cui perfezionare un rovescio acerbo, né proclami adolescenziali sullo Slam scelto come ipotetico obiettivo per un’ipotetica carriera da professionista. E’ una storia che di tennis ha solo il tennis, ed è solcata da un grande dubbio: il tennis, sempre lui, sarà la mia professione?

Alla fine lo diventa per Luca, ma soltanto a 19 anni. Anche grazie al babbo, che saggiamente gli chiude le porte del suo mobilificio e lo spinge ad allenarsi a Perugia, per provarci sul serio. Troppo tardi, dicono. E forse non sbagliano, perchè compiuti i 20 arrivano due infortuni non da poco e sembra già il capolinea: le ragioni delle sue ginocchia sembrano incontrovertibili. L’anno successivo però è quello del primo punto Atp: forse non è così tardi, dai. Iniziano i tempi della Serie A e dei Futures: fino al 2012 sedici finali e nove vittorie.

Gli dicono, tu hai il braccio di un top 40. Lui pensa che se ne dicano tante, però quasi quasi: nel 2013 vuole misurarsi con i challenger, sai mai abbiano ragione loro. Le ginocchia, sentitesi trascurate, alzano ancora la voce: il tendine rotuleo non gli da tregua, e il cortisone è scarso da frangiflutti. Stringiamo i denti, questo è l’anno buono; ma quando lo dici non lo è mai, il ragazzo va sotto i ferri e la stagione si chiude a West Lakes, in Australia.

Il vero miracolo però è il 2014: un anno in ritardo rispetto a quello di Nadal – che nel 2013 tornò e vinse tutto – Luca vive la sua convalescenza immerso nello scetticismo. Per lo spagnolo era quello dell’intero indotto tennistico, per Luca solo il suo, ed è un vantaggio perchè almeno non hai la stampa che ti mette pressione. Finito ai piedi della posizione 1000 del ranking, in sette mesi “Lucone” (1.98 di ragazzone, ove vi fosse sfuggito) inanella uno score di 9 finali: 7 futures vinti, uno perso, e la prima finale challenger raggiunta a Taiwan e persa da Lu.
La classifica migliora, ma al prezzo di ritmi forsennati: oltre ai tornei ci sono i campionati a squadre, non solo in Italia ma anche in Germania e Francia. Perchè il sogno costa e il portafoglio non trabocca, e pazienza se qualche notte si dorme solo quattro ore.

Il 2015 è l’anno dei trenta: per crederci ancora ci vuole ostinazione, caratteristica che certo non manca a chi volava in Oceania imbottito di antidolorifici. Luca vive una rinnovata ambizione, racchiusa testardamente nella sua scelta di provare le qualificazioni dei tornei Atp anche a costo di sacrificare punti più facili in tornei minori.

A febbraio vola a San Paolo, dove rompe la racchetta di riserva e ne acquista una nuova in un negozio locale per l’impossibilità di contattare l’abituale fornitore, alla faccia di chi arriva in campo col borsone che trabocca di piatti incordati. Al turno decisivo di qualificazione c’è Gimeno-Traver, sembra proibitivo: ma da quel 6-4 6-4 inflitto allo spagnolo il tempo cristallizza – la dea bendata gli manda un Deliciano zoppicante – e l’aretino si ritrova al terzo e decisivo set di una finale Atp. Cuevas lo costringe alla sconfitta, che ugualmente significa best ranking (108): dalla prima vittoria nel circuito maggiore alla prima finale in una settimana. Mica male.

Luca ci prova anche a Miami e Montecarlo, ma va fuori al primo turno. Il passo fatto sembra più lungo della gamba, ma il bello dell’ostinazione è che a volte sa beffare le aspettative: a Madrid è ancora la dea bendata a restituirgli un pezzetto di quanto rubatogli – con il ritiro di Berlocq – ma la vittoria su Mahut è sudata e pulita, e significa accesso al tabellone principale.

Nel tennis – ahimè, che vorrei elucubrare a ogni volèe – non c’è spazio per riflettere, quando le cose vanno bene devi essere pronto a sfruttare l’onda vincente e attento a non cadere in acqua. C’è subito Tomic, il vulcanico talento che viene dalla stessa Australia che gli aveva tolto un anno di campi, e c’è la diretta su un canale televisivo che ha ospitato qualcuno anche un po’ più forte di lui. Forse non era troppo tardi, ripensandoci: la gioia è composta – forse un retaggio del suo diploma da ragioniere – e gli ace a referto sono 17, un numero parecchio ingombrante per la terra battuta. E Bolelli, che in risposta non è un drago, si ritenga avvisato.

Insomma, per Luca la prima gioia in un 1000 è arrivata tre mesi dopo il battesimo in un Atp 250. Novanta giorni per quadruplicare, ne basteranno meno di 30 per raddoppiare? Certo, c’è anche Roma di mezzo, ma Parigi val bene una pro-messa.