Bomba o non bomba
Anche il consesso civile, così come lo frequentiamo quotidianamente, non sembra sottrarsi al corso e ricorso degli umori stagionali. E tanto più ciò vale per gli aggregati sociali da stadio. Con un ritmo scandito e ridondante, si alternano fasi di entusiasmo per la novità settembrina, autocoscienza e consapevolezza della propria posizione ‘qui ed ora’ verso fine anno, esplosione delle frustrazioni sopite dopo il primo abbrivio di primavera. Successe l’anno scorso con i tristemente famosi scontri a Roma, prima della Finale di Coppa Italia, successe anche due anni fa, sebbene senza conseguenze fisiche, a Genova, con l’episodio della partita interrotta dagli ultras genoani che pretesero dai propri giocatori le magliette, a loro giudizio indegnamente portate.
Come se il branco, a somma empatica di emozioni condizionabili, a un certo punto, stanco di uno spettacolo che fino ad allora lo ha tenuto a modesto foraggio circense, si rendesse conto di aver necessità di un gesto gladiatorio per affermare la propria presenza in un mondo che ne farebbe volentieri a meno. La bomba carta esplosa a Torino costituirebbe il ‘point break’ del fragore funesto che, spostando l’atomo dell’inerzia cinetica, muove l’aria stagna circostante e dà luogo a un’eplosione di idiozia a lungo trattenuta. Non se ne fa a meno, ogni anno ci si ritrova a commentare, a chiedersi se sia da seguire l’esempio inglese, a ventilare normative da stato di polizia, a chiedersi come mai le telecamere non riprendano, perché gli appelli finiscano a fare compagnia ai fossili dei sauri e le iniziative solidarizzanti abbiano riscontri da recita scolastica di fine anno. Eppure una bomba carta lanciata tra la folla, solo per fortunata combinazione non ha causato il morto, il mutilato, il ferito.
Ve lo immaginate? “Quei bastardi la devono pagare!”. Lancio bomba. Esplosione. Ragazzo o bambino o poliziotto o tifoso colpito, bruciato, chiodificato. Non si sa per pagare cosa, non si sa per quale bastardaggine conto terzi. Nella sua scempiaggine, il fatto è tutto qui.
E ci sarebbe poco da pontificare. Senonché, proprio qui viene la sorpresa. Perché intervengono i tifosi e i dirigenti, ciascuno con le orecchie piene d’acqua da riversare al proprio mulino. “Noi non c’entriamo”, “sono stati quegli altri”, “esiste questo o quel precedente”, “troppo lunga, troppo corta la squalifica del campo”, “e allora la Roma (o il Napoli o la Fiorentina che dir si voglia)?”, fino all’immancabile panacea catartica “questa è la giustizia in Italia”. Fesserie che menano il can per l’aia.
A noi dovrebbe interessare l’intercettazione dell’autore, l’analisi del movente, la pubblica ricognizione della futilità, la messa in sicurezza del sito, la rassicurazione tecnica dell’irripetibilità dell’atto. Tutto il resto serve a confondere, aiuta a dimenticare nel momento stesso in cui solennizziamo un ipocrita ‘mai’ più con la maglietta motivazionale del giorno dopo (indossata 99 volte su 100 da chi nemmeno lontanamente si era mai sognato di portare e tirare una bomba carta allo stadio, ma in qualche modo si sente chiamato a espiare una condanna collettiva per il gesto di chi, se non sgamato, forse la ritirerebbe volentieri).
Bomba o non bomba, gli operatori del calcio devono darsi una svegliata. Dirigenti ansiosi di gestire la comunicazione del post partita; giornalisti che riportano i fatti (spesso ansiosi di presentare un pari e patta di responsabilità che non scontenti lettori e città vicine, o al limite indirizzando la convergenza mostrificante su colpevoli indifendibili); tutori dell’ordine che non si sa come mai da vent’anni non abbiano ancora imparato a usare le telecamere; gruppi di tifosi chiamati a rompere stolide solidarietà cameratesche e a occuparsi di più del tifo inteso come colore, suono e fumo di bengala che come post-ideologia secolare. Senza esautorare i calciatori, pregati magari di non prendersi a pugni negli spogliatoi, inscenando tragicomici teatrini apolegetici, una volta sgamati.
Bomba o non bomba, il salto culturale non si può più rimandare. Impensabile continuare a diluire le colpe su generici “in fondo siamo tutti noi che…”. È il momento di individuare centri di responsabilità, azioni da intraprendere, responsabilità in capo ai singoli attori. Nessuno escluso. Altrimenti ogni anno, più o meno di questi tempi, staremo a farci le stesse domande di stagione.