Che al triplice fischio finale di un derby perso due a uno e in cui molto probabilmente meritavi il pareggio, le scatole un po’ ti girano. E che essere dentro a uno stadio che esplode per la vittoria mentre tu sei costretto a osservare l’esultanza dei tuoi avversari di sempre e a sentire quella bolgia infernale mentre imbocchi il tunnel degli spogliatoi, ti fa dannatamente arrabbiare. Che essere in campo o aver assistito alla prima vittoria dei tuoi rivali concittadini dopo ben vent’anni e che quindi verrai ricordato nella storia sbagliata — quella avversaria — ti fa rosicare immensamente.
È la natura umana, è normale. Ciò che non lo sarebbe, invece, risponde al nome di indifferenza, noncuranza, tranquillità: sentimenti che dopo un derby perso, così, in questo modo e in questo contesto storico, non possono esistere. Ma lo sconfitto ci prova, a dire che va tutto bene, che non è successo nulla. Che non importa se la Juventus ha perso il derby contro il Torino dopo venti anni. E chi se ne frega, tanto lo Scudetto è a un passo e la semifinale di Champions lì ad attendere. Ci prova, a prendere in giro i granata per un tifo “esagerato e smodato”, ché alla fine hanno vinto solo un derby. Solo. Solo?
Gli juventini, probabilmente annebbiati dalle troppe vittorie in Italia negli ultimi quattro campionati, forse si sono dimenticati in fretta cosa voglia dire soffrire. Cosa voglia dire per un tifoso, per un amante, per un fedele dei colori della propria squadra.
Forse si sono dimenticati le loro esultanze quando, tornati in Serie A dopo un anno di inferno in B, riuscivano a battere nel “derby d’Italia” la tanto sportivamente odiata Inter campione di tutto e poi finivano dietro — molto dietro — in campionato. Quelle esultanze erano figlie del risentimento, della rabbia, ma anche della bellezza nel riassaporare la vittoria prestigiosa dopo mesi bui.
E allora perché denigrare il Torino e i torinisti se dopo una vittoria aspettata vent’anni ora si ritrovano a festeggiare per i propri colori? Perché minimizzare la sconfitta cercando di non dare soddisfazione agli avversari? Lo sport è anche sconfitta, è anche ammettere di star male per aver perso e non negare il malessere che si prova a vedere i rivali festeggiarti davanti. Hanno vinto, hanno quasi sempre subito nel confronto e oggi dopo vent’anni tocca a loro. Restare lì davanti a prendersi gli sfottò, a guardare i loro festeggiamenti e ad ammettere che fa male è un dovere nei confronti dell’avversario di sempre.
Ma ci vuole, forse, un pizzico di coraggio, che a tanti ieri è mancato. Ché a importarsene solo quando si vince sono buoni tutti.