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Soli contro tutti, acclamati, bistrattati o incompresi, lodati e venerati: oggi essere mister è questo, l’indifferenza non fa per loro. Sempre in prima pagina per scelta o meno, per decisioni proprie o altrui, soli a bordocampo o nelle loro filosofie di gioco.

Zdeněk Zeman lascia per insofferenza, esausto, sente di aver dato tutto a una squadra che ora più di prima non lo segue più. Annata storta, l’ennesima per un mister senza mezze misure, profeta del calcio offensivo, che nella massima serie non riesce a realizzarsi ancora nonostante i tanti tentativi. Un incompiuto il boemo che ha saputo plasmare in serie B degli squadroni (Foggia e Pescara) composti da giovani talentuosi e affamati, che tuttavia non è riuscito a ripetersi in A, dove il compromesso è obbligatorio, ma non per Zeman.

Tuttavia, il suo modo di intendere il calcio continua ad affascinare, c’è chi lo chiama Maestro, conta infatti numerosi seguaci, ma in realtà gli insegnamenti da cogliere osservando la maggior parte delle sue squadre sono principalmente nelle situazioni da evitare. Anticonformista del calcio italiano, tutto difesa e contropiede, ha osato e oserà sempre senza compiersi mai, un idealista di tattica in un mondo concreto, dove moduli e atteggiamento si piegano al risultato. Lui come Sacchi, Orrico, Maifredi: precursori di un calcio diverso che voleva educare quello italiano, cambiargli la mentalità, si ritrovano oggi emarginati e relegati a scrivanie piuttosto che a panchine. Per loro il pensiero viene prima del talento, la squadra prima del giocatore. Pensieri condivisibili e interessanti, pensieri adatti però principalmente alle larghe intese nei bar di provincia.

Ditelo a Rudy García che conta la mentalità e non gli interpreti. Lui sbarcato nella capitale con in mente un calcio moderno, offensivo, quello del possesso e qualità, quello del falso nueve. Già. Ditelo a García che ha in testa il calcio di Guardiola, ma i piedi di Ljajić, Iturbe e Doumbia piuttosto che Götze, Robben e Lewandowski. Spiegatelo al povero Rudy, ora in palese affanno per aver pensato troppo presto di essere già entrato nei cuori dei romanisti, che allo stesso modo su quella panchina si era scottato Luís Enrique. Sì proprio lui, l’attuale allenatore del Barça, anche lui ben accolto e poi cacciato in malo modo dalla capitale, in contrasto con giocatori e tifosi. Che sia un caso che oggi, le stesse idee messe in pratica da Messi, Neymar e Suárez non diano gli stessi frutti di quando le applicavano Borini, Lamela e Osvaldo?

La verità è che il calcio si fa con gli ingredienti che si hanno. Il bravo allenatore è colui che adatta il suo credo ai giocatori che ha, non quello che spende i soldi della società per nascondere le proprie lacune professionali. Con questo non mi sto schierando con Klopp, Mihajlović o Simeone e nemmeno contro Mourinho, Guardiola o Wenger, ma semplicemente vorrei sottolineare che l’abilità di un allenatore oggi è saper capire cosa può chiedere alla sua squadra e cosa può ottenere da essa. Difficilmente una squadra senza campioni può arrivare a vincere, ma può sopperire al divario tecnico con determinazione e organizzazione. Viceversa, un team imbottito di campioni, difficilmente può esprimere un bel calcio, ma può tuttavia offrire solidità e compattezza al loro servizio.

Detto questo, allenatori come Zeman fanno comunque bene al calcio, nonostante i loro risultati non supportino le idee. Il calcio è in primis un gioco e quindi divertimento, spettacolo, piacere e questo è quello che vorremmo vedere in campo ogni volta, ma spesso tanti colleghi del tecnico boemo e anche noi giornalisti ce ne dimentichiamo. E poi finché un mister dà spazio ai giovani, nonostante tutto, ha vinto la sua partita.