L’unico reale motivo di attrazione del Gran Premio della Cina 2015, alla fine, è stato la chiusura: non tanto per la safety car in sé, quanto per l’arrivo in parata di tutte le vetture: Hamilton su Rosberg, poi le due Ferrari di Vettel e Räikkönen, le due Williams di Massa e Bottas, e via via tutti gli altri. Tutti stretti in pochi secondi, inusuale (ma artificiale): dobbiamo accontentarci.
La vera notizia, in realtà, è che la gerarchia sembra già stabilita: prime le Mercedes, con un margine di mezzo secondo sulla Ferrari (e in qualifica il distacco è maggiore); poi una Williams che pare aerodinamicamente ancora un po’ acerba, e poi ovviamente la Sauber. Sauber? Sì, Sauber.
Sul giro secco, sicuramente le vetture elvetiche non sono da quarto posto; sul passo gara, invece, neanche. Però hanno qualcosa di molto valido: una buona affidabilità. Magari stazionano a lungo ai margini della zona punti – ma poi al traguardo ci arrivano, recuperando posizioni per ritiri altrui. E quindi finiscono per capitalizzare punti preziosi, più che meriti propri (o del propulsore Ferrari), per sventure altrui. Anche questa è un’abilità.
A ogni modo, è facile prevedere che difficilmente le Sauber potranno terminare la stagione ancora al quarto posto: perché è vero che ogni anno fa storia a sé, ma non so quanti avrebbero scommesso sulla continua débâcle di quella Red Bull che, la scorsa stagione, è stata l’unica a interrompere il dominio Mercedes. E qui saltano all’occhio almeno due o tre dati.
Il primo è che la Force India, che lo scorso anno faticò per riuscire a pagare la fornitura dei motori tedeschi, è in fondo al gruppo: vettura non sviluppata, e casse già vuote. Per loro fortuna c’è il secondo dato: e cioè che Marussia-Manor e McLaren-Honda stanno comunque messe peggio (la prima perché tecnicamente fallita e poi risanata in extremis; la seconda per grandi difetti di gioventù al propulsore). E infine il terzo dato: che il motore Renault, adesso “dedicato” al volere di una scuderia sola, non è l’unico problema di un Red Bull ormai “normalizzata”.
Guardiamo a ritroso: Ricciardo doppiato in Australia; Kvyat nono e Ricciardo decimo (doppiati entrambi) in Malesia. Ieri: Ricciardo non riesce a partire (la macchina va in antistallo proprio al momento dello stacco della frizione) ed è costretto a correre tutta la gara nel traffico, con Kvyat che vede la propria monoposto andare a fuoco.
Ufficialmente, la colpa di tutto è stata inizialmente data all’unità motrice fornita dalla Renault (costruttore che, peraltro, è stato uno degli sponsor maggiori del passaggio al turbo+elettrico), e sicuramente qualche responsabilità c’è; ma è impressionante vedere che la Toro Rosso, senza il ritiro di Verstappen (guai proprio al motore), in classifica sarebbe ancora davanti alla casa madre (adesso la segue un punto indietro).
Quindi le voci si rincorrono: da un lato si dice che la Red Bull sia intenzionata a produrre in proprio il motore, dall’altra che Dietrich Mateschitz stia meditando il ritiro dalla Formula 1. Di sicuro c’è un dato di fatto: con Adrian Newey che si è parzialmente sganciato dalla scuderia, manca una figura di riferimento autorevole come la sua.
Ha fatto impressione vedere il genio britannico studiare la Toro Rosso, in Australia, alla ricerca di idee su come migliorare la RB11. E fa ancora più impressione vedere il pilota rivelazione del 2014, Daniel Ricciardo, dovere lottare col coltello tra i denti contro un Ericsson qualsiasi. E, per non far perdere a Herr Mateschitz la voglia di tenere in piedi la baracca, sarà bene che l’aggressivo pilota australiano possa di nuovo lottare con Alonso (come un anno fa), ma di certo non in fondo alla griglia.