Il Napoli muore ma non risorge

47 punti, sesto posto parziale, 47 gol fatti e 37 subiti, cinque punti nelle ultime sette partite ma ancora in corsa per il successo in Europa League e in Coppa Italia, quasi a dimostrare che, dopo i successi a questo punto quasi estemporanei di Valencia, Rafa Benítez è ormai condannato a essere “l’asso di coppe”, schiavo di un personaggio incapace di brillare in campionato – che non vince dal 2004 – ma invece abile a far avanzare le sue squadre nelle competizioni a eliminazione diretta, dove ci si gioca tutto in 180 minuti.

Eppure, anche in Serie A, questo Napoli sembrava poter ambire a fare di più, decisamente di più. Già l’anno scorso, leggendo i nomi che componevano la rosa partenopea, in estate si pensava che gli Azzurri potessero quanto meno dare fastidio alla Juventus di Conte e, mentre nessuno considerava la Roma di Garcia, proprio Napoli e Fiorentina – assieme alle milanesi ma più per onor di firma che non per convinzione – venivano accreditate come principali contendenti del tricolore alla Vecchia Signora.

Così non è stato ma degli ottimi presupposti c’erano: il 2013/2014 era infatti andato in archivio con una beffarda eliminazione in Champions League (ricordate? I ben 12 punti nel girone della morte eccetera), un’estromissione più o meno passata sotto traccia in Europa League (c’era forse ancora troppa amarezza per la Champions perché si considerasse un peccato mortale anche quella doppia sfida col Porto, compagine peraltro più che rispettabile), il successo in Coppa Italia – Rafa, l’asso delle competizioni a eliminazione diretta, colpisce ancora – e il terzo posto finale in campionato, a quota 78 punti, non lontanissimo da quella che, in anni precedenti, era stata una quota scudetto (nel 2011 il primo Milan di Allegri fu campione con 82 punti, la prima Juve di Conte vinse a 84 e la seconda ne registrò 87) e quindi, eliminando qualche difetto soprattutto difensivo, incrementabile per competere per il tricolore quest’anno.

Anche perché la Juventus non avrebbe senz’altro potuto raggiungere ancora una quota abnorme come 102 punti, così come la Roma avrebbe avuto le coppe europee a cui pensare (assenti lo scorso anno): il margine, almeno sulla carta, c’era. E inoltre, stavolta, gli ottavi di Champions League sarebbero stati sicuramente raggiunti anche grazie all’esperienza maturata nel mesto autunno europeo del 2013.

E invece no. Il cammino in Coppa dei Campioni termina ancora prima di cominciare al San Mamés di Bilbao, dove il Napoli s’infrange sull’ostacolo Athletic, mentre in Serie A l’inizio è drammatico: quattro punti nelle prime quattro uscite, compresa la tragedia collettiva della débâcle interna col Chievo. Non benissimo per una squadra che, in teoria, era uscita rinforzata e desiderosa di rifarsi dall’estate e dalla fresca delusione continentale ma è ancora presto: il Napoli si riscuote e si rimette più o meno in carreggiata. Il resto è cronaca: la squadra alterna buoni periodi in cui pare essersi ristabilita ad altri meno buoni. A dicembre è arrivata la Supercoppa italiana (un trofeo in più non fa mai male) e, solo un mese e mezzo fa, Benítez parlava delle chance che ancora il Napoli aveva di chiudere al secondo posto, a causa anche degli intoppi giallorossi (e questa cosa dei proclami raramente porta bene).

(La Juventus comunque continua a fare un campionato a parte: i 102 punti non verranno ripetuti di sicuro ma la proiezione dell’attuale media punti della banda Allegri all’ultima giornata dà una previsione di quasi 92 lunghezze. Quella del Napoli dà un 61,5, una quota più o meno buona per il quinto posto.)

Oggi, dopo la serie orribile di risultati a cui s’accennava in apertura, con un’unica vittoria nelle ultime sette gare, qualche domanda su questo Napoli ce la si deve porre.

Prima di tutto sulla difesa. 37 gol incassati (gli stessi dell’Inter e dell’Udinese e uno in più del Milan, non proprio compagini rinomate per la loro solidità in retroguardia) sono una cifra più che rimarchevole, segno di una fragilità difensiva cronica e quasi paradossale, perché, in realtà, il Napoli è una squadra che non concede moltissimo – come mostrano i dati raccolti dalla SICS al riguardo. Quindi? Quindi, quando gli Azzurri concedono qualcosa dietro ineffabilmente poi lo pagano, dimostrando così che la facilità con cui gli avversari segnano ai partenopei consente loro di non sottoporre a pressione continua la retroguardia di Benítez, perché bastano pochissimi affondi per segnare. Per converso, è valida anche la tesi conseguente: se sottopongo il Napoli a grande pressione offensiva segnerò tante volte (l’esempio principe è la sfida con l’Inter di Mancini: i nerazzurri hanno attaccato con reale convinzione venti minuti e hanno segnato due volte). Errori individuali e scarsa capacità dei difensori di risolvere individualmente le situazioni di pericolo, anche a causa di una solidità di reparto quasi nulla, fanno il resto. Dimostrazione ulteriore ne sia anche la confusione sulla scelta degli effettivi che compongono il reparto: nelle ultime cinque uscite di campionato il Napoli ha schierato ben tre coppie di centrali distinte e addirittura cinque quartetti difensivi diversi. Va bene il turn over, ma forse qui si è esagerato.

Anche l’attacco, ormai da due anni segnalato come “il punto forte del Napoli” per antonomasia, di recente ha mostrato qualche crepa. Dall’inizio di marzo, infatti, gli Azzurri hanno fatto registrare la miseria di tre sole reti in cinque match e Higuaín è finito sul tabellino appena tre volte dal 26 gennaio a oggi, rimanendo a becco asciutto per tutto febbraio e quasi tutto marzo (ha segnato solo all’Inter). Se a questo aggiungiamo che Zapata ha sempre fatto il suo quando chiamato in causa (ma ancora non riesce a fare gol restando seduto in panchina), che Mertens sta faticando parecchio a trovare la porta, Callejón non fa gol da una vita e Gabbiadini – l’unico elemento che pareva avere confidenza continua con la rete dopo la sosta natalizia – non è titolare fisso per le teorie sulle rotazioni del tecnico iberico, il cerchio è completo.

Come non parlare poi del problema Hamšík? Lo slovacco è un caso ormai da un anno e mezzo e pare star attraversando una crisi senza fine. Ogni tanto si produce in prestazioni sufficienti o addirittura buone ma sono episodi isolati, un po’ come i suoi stessi gol, a cui fanno da contraltare manciate di sfide in cui ha giocato, spesso male, pochissimi palloni. Il gioco spalle alla porta che gli chiede Benítez penalizza chiaramente il capitano partenopeo, spesso e volentieri spaesato e avulso dalle trame di gioco nonostante, in teoria, sia proprio lui il principale rifinitore della squadra nonché l’elemento attraverso il quale deve passare il gioco dei compagni. In più, il giocare così alto e così vicino all’area avversaria gli toglie l’arma migliore che ha avuto lungo il corso della carriera, cioè la capacità di attaccare la porta da lontano e l’abilità negli inserimenti senza palla, attualmente affidati più agli esterni che tagliano dalle fasce o allo stesso Higuaín, che spesso ama svuotare l’area e iniziare lui stesso la manovra offensiva per poi anche finalizzarla.

Infine l’interrogativo forse preponderante: le tante sconfitte. Quest’anno gli Azzurri non sono nemmeno particolarmente fortunati, va riconosciuto, e il ko di ieri ne è una prova. Tuttavia la compagine ha offerto prove sconcertanti lungo l’arco della stagione, nelle quali la squadra non è sembrata nemmeno vagamente interessata a giocare sul serio a calcio. Tre su tutte: contro il Milan a San Siro, contro l’Hellas a Verona e contro il Torino, sempre in trasferta. Tre gare emblematiche del climax negativo che possono raggiungere gli uomini di Benítez: prestazioni svogliate, a dir poco approssimative e, soprattutto, molto passive, in cui l’arma del contropiede è parsa più che altro una scusa buona per estraniarsi dal match e, letteralmente, schiacciare un pisolino. Una formazione che aspirerebbe allo scudetto come massimo e vuole lottare per il podio come minimo non può permettersi prestazioni così sotto tono e vuote di contenuto; a oggi le sconfitte sono già otto mentre lo scorso anno, a fine stagione, furono solo sei.

In tutto ciò, l’uomo al centro delle “indagini” è ovviamente Rafa Benítez. Tra un litigio con Massimo Mauro e qualche lamentela per presunti errori arbitrali che gli è costata, tra le altre cose, la gogna mediatica del web, il mister spagnolo rappresenta a tutt’oggi un mistero indistricabile per tutti, appassionati e addetti ai lavori. Il suo Napoli ha una delle migliori rose del campionato e, a gennaio, gli arrivi di Gabbiadini e Strinić hanno effettivamente rafforzato la squadra; tuttavia è un fatto ineluttabile che, per due anni di fila, il club presieduto da De Laurentiis non abbia costituito nemmeno per un giorno una sfidante credibile alla Juventus pigliatutto: questo dato pesa come un amcigno sulla valutazione del tecnico ex Liverpool. Allo stesso modo però non si può tacere che, con lui in sella, questo Napoli ha già vinto due trofei (per dire, è già meglio di Mazzarri sotto questo profilo) e, come si ricordava poc’anzi, è ancora in corsa per vincerne altri due in questa stessa stagione.

Che conclusione trarne, allora? Al momento, in realtà, si può solo arrivare a delle risposte parziali sul problema della “doppia faccia” del Napoli. Il rendimento molto differente tra i tornei a eliminazione diretta e Serie A indica che la squadra, nonostante numericamente lo sia, non è adatta all’impegno su più fronti, dal quale risulta sistematicamente penalizzato – in favore delle coppe, che portano normalmente più stimoli quasi da sé, specie avanzando – il campionato. Posto che il problema non è tecnico – la rosa è di qualità complessiva notevole anche se manca indubbiamente qualcosa a centrocampo e in difesa -, resta come spiegazione possibile solo l’incapacità del gruppo di mantenere la concentrazione su tutti gli impegni e focalizzarsi su un match per volta.

La mancanza di tenuta mentale della squadra si nota anche nel corso di una stessa gara: le sfide interne contro Cagliari e Inter, per esempio, risoltesi entrambe in spettacolari pareggi con tanti gol, dimostrano come la rosa partenopea conceda sistematicamente all’avversario lunghi periodi di controllo della gara alternati a grandi sfuriate offensive degli Azzurri, durante le quali gli uomini di Benítez impongono ritmi forsennati che poi, però, mantengono sempre per troppo poco tempo e a fasi alterne. Il Napoli, che pur basa tante delle sue fortune sulle ripartenze, non riesce ancora a concedere all’avversario il semplice controllo sul possesso, finendo invece per cedergli in blocco il controllo della partita, rimanendo sostanzialmente succube degli avversari per larghi tratti.

I partenopei devono crescere in questo particolare aspetto: non prendere le redini del gioco può non per forza voler dire estraniarsi o rinunciare e quindi subire, come accade invece adesso, ma semplicemente lasciare l’iniziativa al rivale, comunque controllandone la spinta offensiva. Probabilmente è proprio questa una delle colpe più evidenti del tecnico, assieme col solito cieco affidamento al turn over e a rotazioni che non pare tengano nel giusto conto gli stati di forma dei giocatori. Allo stesso modo, l’ex allenatore del Valencia ha sbagliato anche nella gestione dei teatrini mediatici che senza dubbio non hanno aiutato i suoi e hanno finito solo per innervosire tutto l’ambiente, così come anche la farsa sul contratto in scadenza (che ormai viene tirata fuori ogni settimana) non è probabilmente stata gestita al meglio dal mister e dal suo stesso presidente – qui le colpe sono senz’altro condivise con De La. Resta? Se ne va? Chi lo sa?

Quel che però è palese è che Benítez e il suo Napoli si assomigliano, letteralmente. La squadra azzurra è evidente espressione diretta del suo allenatore e, allo stesso modo, ne rispecchia fedelmente i tratti salienti della parte più recente della sua carriera: una formazione talentuosa ma con qualche difetto strutturale che produce un rendimento troppo discontinuo in campionato per essere una candidata credibile alla vittoria finale; allo stesso tempo, la presenza di tante individualità in rosa che possono risolvere le partite in ogni momento e, soprattutto, che sono capaci di dare il meglio giocando assieme solo in partite isolate, magari nascondendo in queste occasioni anche i difetti di impianto e manovra del collettivo (o perlomeno superandoli).

Per una valutazione più completa ed esauriente della stagione dei campani bisognerà ancora aspettare la conclusione dell’anno e gli eventuali risultati. A oggi, giorno in cui si festeggia la Santa Pasqua, rimanendo in tema, possiamo dire che il Napoli sembra morto al campionato e senza chance di recuperare il podio.

Risorgerà?

Published by
Giorgio Crico