Oriundi: sì, in mancanza di un progetto
Diciamolo pure: l’uomo non è dei più simpatici, ma dalla sua ha il fatto che i risultati parlano per lui. Ci riferiamo ad Antonio Conte, commissario tecnico della nazionale nonché triscudettato in anni recenti con la Juventus. Si può obiettare che abbia vinto solo nell’orticello casalingo, ed è vero; ma ha vinto, e questo è un fatto.
È stato anche così che si è guadagnato la panchina “finale” del movimento calcistico italiano. Quella che da un lato è la più desiderata, e dall’altro la più difficile. Perché la nazionale è più che un normale club, e ha regole tutte sue. Si dice che la nazionale non abbia il calciomercato – e già mi pare di sentire le critiche alle recenti convocazioni di Vázquez e Éder, che proprio nati in Italia in effetti non sono.
Quando dice però Conte chiede «Qual è il problema?», tutti i torti non li ha. Meglio: fa bene a sottolineare che non sarà il primo né l’ultimo a convocarne, e a dire che «la Nazionale è per i migliori, e ci devono arrivare i migliori». Ma a volte bisogna anche guardare dietro alle parole.
E cioè: se in una nazionale devono giocare i migliori, il messaggio è piuttosto chiaro. E dice che il nostro movimento non genera giocatori di livello, dovendosi quindi ridurre a “italianizzare” giocatori arrivati nel Belpaese ben dopo la scuola calcio. A ricercare eventuali nonni e zii a Potenza Picena, per esempio.
Quindi, per le convocazioni di Vázquez e Éder, scatta la polemica (l’unica cosa che non soffra rischi di deflazione, in questi anni). Come se Prandelli non si fosse issato a vicecampione europeo anche grazie a Thiago Motta, e come se poi non avesse convocato anche Paletta (e pre-convocato Rômulo) per gli ultimi Mondiali. Eppure ai tempi non c’erano tutte queste voci pronte ad alzarsi.
In altre parole, penso che questa polemica sia strumentale per riuscire a non parlare di quanto detto più sopra: non riusciamo più a generare giocatori di livello. Guardiamo alle prime cinque della classe: quanti attaccanti “italiani purosangue” hanno? Niente in casa Juventus; la Roma ha Totti (non ce ne voglia, ma è fuori età) e Verde (anche lui, ma al contrario: 18enne); niente in casa Lazio; la Sampdoria ha Okaka (figlio di immigrati, ma nato a Castiglion del Lago); infine il Napoli ha Gabbiadini (e il degente Insigne).
E se scendiamo a ritroso, prima in mediana e poi in difesa, l’unico fuoriclasse realmente futuribile che vedo è sempre lui: Marco Verratti, cioè un italiano che non ha mai calcato i campi della Serie A, e che si è formato quale giocatore di livello internazionale direttamente in Francia, dopo avere giovato della cura-Zeman in quel di Pescara.
Il fatto è che abbiamo smesso (proprio come Paese) di programmare il futuro. Non esiste più nulla che non sia navigare a vista. Di progetto si parla, ma poi finisce lì. E poi tutti a stupirsi dell’Empoli di Sarri: un altro maestro di calcio, uno che ha fatto gavetta e ha potuto fallire; ma che poi porta un Valdifiori (28 anni) alla ribalta, lavorando e rilavorando. E lo fa senza creare titoli sui giornali.
Vogliamo dircelo? Il talento, se non ce l’hai, non puoi inventartelo; e, se necessita, bisogna reclutarlo dove c’è. Ma la tecnica, la tecnica: quella si può imparare e affinare, sempre e comunque (non solo nello sport: nella vita). Ricominciamo a insegnarla: ai figli degli italiani e ai figli degli immigrati. I prossimi “oriundi” dovrebbero arrivare da lì: dal nostro sistema educativo, dal nostro modo di far crescere e maturare i giocatori (come ha fatto la Germania campione del mondo). Diamo spazio e occasioni ai maestri di sport. Occorrerà almeno un lustro per cominciare a vederne i risultati, ma non sarà fatica sprecata.