Grazie comunque

Bromma’karna, RNK Spalato, Club Bruges, FC Copenhagen, HJK Helsinki, Athletic Club e Zenit. Sono i nomi delle avversarie incontrate dal Torino in Europa League (e nei preliminari), le compagini la cui compagnia rimarrà scolpita nella storia della società granata.

Sì, in Europa. Perché il Torino ci è tornato, passando per i problemi del Parma dopo l’errore di Cerci, e per un preliminare strano quanto surreale tra luglio e agosto. In poche migliaia alla Tele2 Arena di Stoccolma, ma oltre 20 mila all’Olimpico lo scorso 7 agosto: c’era fame di Toro, fame di calcio continentale, voglia di entrare nel giro che conta.

L’Europa League come sfizio inaspettato, come perla, come occasione da non perdere. Per assaporare cosa vuol dire mettere il naso fuori dall’Italia, col ricordo alla sedia di Mondonico, al Toro che fu, alle precedenti epoche. Un’Europa strana, francamente: quella che tutti dicono di non snobbare ma poi rispettano, quella che altri dicono di rispettare ma poi trattano come una scocciatura. Il Toro no, audacemente: troppo ghiotta l’opportunità, quando ti ricapita?

Significativa l’apnea i primi mesi della stagione. La fatica di superare le partenze di Immobile e Cerci, lo sforzo supplementare dei giovedì sui campi di tutta Europa; un preliminare in Croazia e poi Danimarca, Belgio e Finlandia: piatto che piange in campionato e i tifosi più pessimisti già parlano di Serie B. Non chi scrive, certo che no: la sensazione era che la doppia fatica pesasse davvero su un gruppo non abituato ai due fronti, che il Toro facesse bene ad arrangiarsi. A recuperare di riffa o di raffa punti qua e là, stringendo i denti in attesa di giorni migliori: lo 0-0 di lotta e di governo in quel di Empoli come simbolo del doppio affanno, la pausa delle coppe europee per ritrovarsi. Da lì in poi un altro Toro, sino alla riapertura dell’Europa League: un sorteggio da brividi (lo stesso Athletic che in agosto aveva fatto fuori il Napoli dalla cosiddetta “Europa che conta”) e un’impresa da leggenda.

Nella gloriosa spedizione al San Mamés c’è tutto: paura, sudore, sofferenza, ma anche lacrime di gioia. Via tutti i derby persi (compreso l’ultimo, immeritatamente all’ultimo secondo), quelli non vinti, la traversa di Rosina, le retrocessioni, i fallimenti, le due finali di playoff consecutive. Nulla di tutto questo, solo il Torino: con rispetto ma senza paura a San Pietroburgo, a casa con le ossa rotte ma una voglia di ritorno grossa così. Sino a ieri sera, alla spinta della Maratona e dell’Olimpico tutto: pazienza se è andata male, pazienza se il gol è arrivato troppo tardi, pazienza per tutto.

Perché alla fine vien da dire grazie comunque al Torino, che ci ha ricordato a cosa serve (soprattutto) l’Europa League. Cioè dare un sogno internazionale pure a chi di solito gioca per salvarsi. A riconciliare con la storia le nobili di un tempo. In attesa che l’Olimpico diventi “Stadio Grande Torino” e che gli Immortali scendano in campo definitivamente, domenica dopo domenica (e magari qualche giovedì).

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Matteo Portoghese