Formula 1: la rivoluzione rossa
È finita come tutti si aspettavano: le Mercedes davanti a tutti (con Hamilton davanti a Rosberg: la sicurezza di chi è già diventato campione). Nel mezzo, si è visto un po’ di tutto: solo 15 vetture al via, solo 11 all’arrivo, solo 5 a pieni giri, con Button che è passato dal secondo posto di un anno fa a due giri di ritardo. Per non farci mancare niente, subito anche la safety car in pista, per il testacoda di Maldonado (con l’altra Lotus che si ritira un giro dopo). Alla ripartenza, erano 13: Formula Deserta.
I sintomi che questo non sarebbe stato un avvio di stagione normale si erano avuti durante tutta la fase di avvicinamento ai primi 300 chilometri di corsa: l’incidente di Alonso, mai troppo chiarito; la rocambolesca iscrizione della Manor-Marussia, senza neanche un metro corso; il ricorso di Van Der Garde, pilota con contratto ma senza sedile; infine l’infortunio di Bottas, qualificatosi sesto ma costretto al forfait per guai alla schiena. Notizie su notizie, ma soprattutto tanta, tanta confusione.
Quella che sembra cominciare a diradarsi anche a Maranello e dintorni, là dove non siede più Luca Cordero di Montezemolo, né Domenicali o Mattiacci, né Pat Fry né Nick Tombazis, né Alonso (e il suo ingegnere Andrea Stella), e l’elenco potrebbe continuare ancora. Ma meglio concentrarci su chi c’è: agli ordini del direttore tecnico James Allison ci sono il motorista Mattia Binotto (già vice di Marmorini) e il capo designer Simone Resta (scuola Aldo Costa, all’occasione della vita). Più Vettel come pilota, ovviamente (e il collega Alberto Antonini all’ufficio stampa: in bocca al lupo).
Soprattutto, però, c’è un’aria differente: meno piangersi addosso, più aggressività agli ordini di Maurizio Arrivabene, nuovo direttore della scuderia. Meno fronzoli e più concretezza (Resta, lavorando sul progetto di Tombazis, avrebbe cominciato con una sfrondatura di molte soluzioni estreme e, come tali, dubbiose) per essere i veri rivali delle Mercedes, come sostiene Vettel.
Sebastian, uno che tra i suoi difetti non annovera il carattere aperto: tanto Schumi era chiuso e diffidente (specie all’inizio), quanto Vettel non si nasconde e ha quel minimo di opportunismo sufficiente a fargli dire «Ragazzi, forza Ferrari!», in italiano, in radio. Se il suo collega Räikkönen e il suo predecessore Alonso hanno esordito col botto (vittoria alla prima in rosso), il tedesco vive in un’epoca differente, e ha dovuto accontentarsi: un terzo posto all’esordio, con una macchina che non ha dato problemi, è comunque un buon viatico per una nuova gestione.
Il ritiro di Räikkönen invece pare figlio piuttosto della rossa prerivoluzionaria: un problema ripetuto due volte, sempre sullo stesso punto (la ruota posteriore sinistra). Uno di quegli accidenti che non devono succedere, eppure succedono; uno di quei piccoli guai che alla Ferrari, se non vinci, fanno davvero rumore. Ben più di un motore Renault insufficiente, capace di vanificare le intuizioni che Adrian Newey trasferisce sulle sue Red Bull.
E tutto questo quando ancora deve compiersi l’ultimo atto della rivoluzione rossa: l’arrivo di Marchionne alla presidenza della Ferrari è stato solo il preludio alla quotazione in borsa. Manovra piuttosto elaborata: mentre il 10% del titolo verrà subito collocato sul mercato “libero”, il 39% delle azioni verrà distribuito agli attuali azionisti della FIAT-Chrysler; alla fine del gioco, alla famiglia Agnelli rimarrà in mano “solo” il 51% della Ferrari.
E qui sta la vera sfida del nuovo corso: come gli investimenti per i nuovi motori hanno ampiamente dimostrato (oltre 400 milioni per sviluppare il gioiello Mercedes), per stare all’avanguardia in Formula 1 servono idee e soldi. Fino a oggi, fondamentali per la Ferrari sono stati i contributi provenienti dalla FIAT; ma una Ferrari quotata in borsa avrà altrettanti capitali da investire? La vera sfida è fuori dalla pista. Ma in pista se ne vedranno i risultati.