Va bene, che fosse tornato lo sapevamo già da un po’, ma solo adesso che l’abbiamo finalmente rivisto in panchina, nella sua panchina rossoblù, ci siamo resi conto che il sollevamento dall’incarico di allenatore del Cagliari di Gianfranco Zola ha fatto ripiombare Zdeněk Zeman, il boemo più discusso d’Italia, al centro del dibattito calcistico del Belpaese, complice anche il risultato finale della partita di ieri sera, la prima dopo il ritorno appunto, e una situazione di classifica che durante la sua assenza non è certo migliorata.
L’occasione è però troppo ghiotta per non sfruttarla appieno e dunque parlare del malcostume, diffuso ormai da anni in Italia, di non limitarsi solo all’esonero di un allenatore che non sta ottenendo i risultati auspicati in estate a stagione in corso – e alla sua conseguente delegittimazione nei confronti dello spogliatoio – ma addirittura dell’allontanamento del subentrante, con tanto di richiamo per il tecnico originario (si sa, in tempi di spendig review chiamarne un terzo potrebbe pesare troppo sul bilancio… Anche se, talvolta, i presidenti più ispirati arrivano addirittura a questo tipo di soluzione, magari dopo aver anche giocato la carta del richiamo del primo tecnico).
Infatti è inevitabile chiedersi a cosa serva cacciare un mister che sta ottenendo risultati deludenti se poi, passati uno, due o tre mesi, lo si richiama per chiedergli solitamente un mezzo miracolo, tendenzialmente da realizzare in condizioni ancora peggiori rispetto a quelle che gli si imputavano come colpe al primo esonero. Se le valutazioni tecniche che hanno portato al primo sollevamento dall’incarico sono valide, perché ridursi a chiamare ancora lo stesso allenatore giudicato insufficiente appena qualche settimana prima? Sembra onestamente un controsenso.
Per quanto riguarda il Cagliari in particolare, poi, come ci si poteva aspettare da Zola un’inversione completa di tendenza se dopo un mese di lavoro l’ex leggenda del Chelsea era già in discussione e, dopo un altro paio di settimane, era anche già un dead man walking in grado di conservare il suo lavoro unicamente con delle vittorie? Come può un allenatore concentrarsi per bene su un lavoro già difficile di partenza, con un gruppo costruito per un altro e che è anche pericolosamente sul baratro di una completa rinuncia alla sfibrante lotta per la salvezza se sa che, appena si rimediano due o tre sconfitte di fila, si può perdere il posto in favore di qualcuno che solo un paio di mesi prima pareva la sciagura principale della squadra? E come può il “cavallo di ritorno” credere fino in fondo a tutto quel che la dirigenza gli dirà fino al termine della stagione se questa non si è fatta problemi a cacciarlo già una volta? Che fiducia può esserci tra lo staff tecnico di Zeman che rientra in carica dopo sessanta giorni di inattività forzata e le alte sfere di un club che l’hanno prima messo sotto contratto e poi, sollevandolo dall’incarico, sostanzialmente indicato come responsabile dei risultati non soddisfacenti?
Ma, soprattutto, a che serve cambiare allenatore se, alla fine, l’annata la conclude colui che era stato prima scelto e poi esonerato? Tanto valeva tenerselo in modo continuativo, no? In tutto questo, immaginiamo, mantenere la giusta concentrazione, per un calciatore, non dev’essere semplicissimo. Anche perché ogni tecnico ha i suoi gusti, le sue idee sulla formazione e sugli interpreti migliori per la sua idea di calcio; alcuni giocatori possono esaltarsi dopo un cambio di panchina perché vengono finalmente valorizzati laddove, magari, il mister precedente non li apprezzava abbastanza: pensate per esempio a chi s’è guadagnato il posto in squadra grazie all’allenatore subentrante quando, invece, torna “quello che lo teneva in panchina”. Difficile che lo spogliatoio non ne risenta.
Eppure la tendenza a fare, disfare e rifare ancora le scelte più strane sulla guida tecnica di una rosa è ormai più che radicata nel nostro calcio e il Cagliari, col suo balletto tra Zeman e Zola, ne è solo l’ultimo esempio. Un malvezzo che, francamente, non pare nemmeno avere chissà che travolgente utilità e che pare più dettato dagli stessi stimoli che si hanno quando si crede di poter vincere al Superenalotto che non da un’applicazione sensata del raziocinio umano.
Forse perché, per fin troppi presidenti, l’approccio agli interessi sportivi della propria squadra di calcio somiglia appunto più a come ci si accosta al gioco d’azzardo quando si ha bisogno immediato di soldi che non alla meticolosa (e faticosa) volontà di pianificare per bene un progetto che tragga la sua forza da un’organizzazione pluriennale efficace.
In fondo, come in molte altre cose più importanti del calcio, quel che pare importare più d’ogni altra cosa è salvare capra e cavoli quando scoppia la tempesta. Poi fa niente se questa scoppierà anche domani perché oggi non ho saputo imparare come prevenirla…