Pioli, l’allenatore che viene da lontano

E adesso che ha agganciato la zona Champions, Stefano Pioli ha salito quel gradino in più che finalmente lo mette in bella mostra, accanto a Benitez e un passo avanti a Montella o Mancini, per non parlare di chi, senza alcuna esperienza, ha avuto in sorte panchine importanti come quella del Milan.

Eppure, al principio di stagione occorreva coraggio per accettare la panchina della Lazio. Una squadra mortificata da una contestazione oltranzista dei propri tifosi, quando a ragione, quando per enfasi consuetudinaria, sotto la spinta incessante delle frange ostili per giuramento templare al presidente Lotito, uno che di suo poco brilla per simpatia indotta.

Ma la storia di Pioli non nasce oggi, viene da lontano e porta in dote tanto lavoro speso sul campo e una tempra in lega rinforzata dall’esperienza consumata, prima da giocatore, poi da allenatore. A ripercorrerne le tracce, si capisce che ci voleva ben altro, per scalfirne la corazza.
Prossimo ai cinquant’anni, Pioli si mise calcisticamente in luce nella squadra della sua città, Parma, al principio degli anni ’80, quando ancora i ducali erano lontani dall’affacciarsi nel calcio che conta.
Ancora in età da Under 21, passò alla Juventus di Trapattoni, con l’impegnativo appellativo di “nuovo Cabrini” (all’epoca non era infrequente attribuire clonazioni in pectore ai debuttanti, capitò anche a Mazzarri, “nuovo Antognoni” o al meno conosciuto Claudio Valigi, “nuovo Falcao”).
Sotto la guida di Trapattoni, Pioli, benché spesso partendo dalla panchina, visse anni importanti, vincendo uno scudetto e una Coppa Intercontinentale. Giocò accanto a Platini e Scirea, Tardelli e Boniek. Anche lui – come Prandelli – era presente nella sciagurata notte della tragedia dell’Heysel.

Continuò nel Verona di Bagnoli e nella Fiorentina, con Baggio, dove passò diversi anni, raggiungendo anche una finale di Coppa Uefa nel 1990, a cui però non prese parte, frantumato da un intervento criminale del tedesco Borowka che lo mise k.o. nella semifinale col Werder Brema. Niente rispetto allo spavento vissuto nel 1994, quando uno scontro di gioco durante un Fiorentina – Bari, gli causò un arresto cardiocircolatorio di 40 secondi, oltre che un trauma cranico e toracico. Che oggi sia stata proprio la partita stravinta dalla sua Lazio contro la Fiorentina a consacrarne anche mediaticamente l’operato, rientra in fondo nei corsi e ricorsi della vita vissuta.

Da allenatore, senza scorciatoie ha percorso tutte le tappe necessarie a perfezionare la propria visione di gioco, in quindici anni di praticantato di provincia. Chievo, Bologna e Parma, ma anche Salernitana, Grosseto e Piacenza. E, da buon girovago della panchina, anche un’esperienza scottante con Zamparini, a Palermo.

Prima di scegliere Garcia, anche la Roma aveva pensato a lui. E’ moderno il gioco di Pioli. Difesa alta, innanzitutto. Pressing intenso e organizzazione offensiva incentrata sull’apertura di vie di fuga laterali e transazioni rapide. Velocità e movimento. Un modello dove si è trovato a meraviglia Felipe Anderson, stella della Serie A che nella scorsa stagione, vuoi per gioventù, vuoi per inesperienza fisica e tattica, era rimasto confinato nel recinto dei giocatori da ultimo quarto d’ora. C’è da credere che vinta la scommessa Anderson, Pioli saprà recuperare e lanciare anche Keita, se quest’ultimo mostrerà la necessaria convinzione e concentrazione. Per il buon gioco propositivo di Pioli, l’innesto di gioventù è naturalmente organico e funzionale, come dimostra anche il minutaggio concesso al giovane centrocampista Cataldi.
Il momento sembra quello giusto, tanto che nemmeno la parola scudetto, ovviamente visto in prospettiva futuribile, è impronunciabile dall’allenatore della Lazio. Stefano Pioli, il gregario che sapeva vincere, un allenatore che viene da lontano. E che vuole andare lontano.

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Paolo Chichierchia