Home » O Roma o morte?

L’esito della sfida scudetto (?) di lunedì tra Roma e Juventus ha di fatto certificato – a meno di scossoni improbabili – il quarto scudetto consecutivo per la società bianconera, padrona del campionato per meriti propri e demeriti altrui (stabilire in quale misura sarà lo sport dell’estate). Tale situazione – con la Serie A praticamente congelata se non nella lotta per le posizioni utili a entrare nel calcio continentale (grazie, Fiorentina!) – ci permette di soffermarci ancora su quanto accaduto in settimana, sulla Coppa Italia per una volta al centro di tutto, vuoi per il campionato al 99% deciso, vuoi per la tristezza della situazione del Parma, ben sviscerata ieri nell’editoriale di Pietro Luigi Borgia.

A bocce ferme e a due giorni dal successo della Fiorentina nella seconda semifinale d’andata, è il caso di riflettere sul sistema della coppa in generale, ma soprattutto sulla finale. Se la struttura è obiettivamente troppo snella e già ce ne siamo lamentati, da più parti la gente si lamenta della sede romana della finale, che rischia di favorire una Lazio o una Roma (non quest’anno) in caso di qualificazione, o comunque di essere molto poco neutrale. Come risolvere il problema?

Innanzi tutto, nascondere la testa sotto la sabbia non serve a niente: il problema esiste e si vede, non fino al punto di chiedere che i gol di una non romana in finale valgano doppi, ma certo di sollevare dei dubbi sulla legittimità della scelta, o sulla sua fissità. Ad alimentare dubbi e perplessità ci si sono messi, sulla scia di quanto successo l’anno scorso, timori di ordine pubblico, e allora qualcosa bisognerà fare. Naturalmente dall’anno prossimo, perché una competizione è seria soprattutto quando non se ne cambiano programmi, aspettative e routine in corso d’opera, ma la sensazione è che parliamo di un problema strutturale, che riguarda globalmente il calcio dalle nostre parti (leggi stadi di proprietà, perché all’Olimpico spetterebbe essere il nostro Stade de France) e va ben oltre il mero evento della finale.

Per esempio, la scelta della capitale quale sede di uno degli eventi di maggior richiamo (e ufficialità) del calendario sportivo nazionale è sacrosanta. Non so (non credo) se arriveremo mai a imitare chi nello stadio (principale) della capitale ci organizza tutti gli incontri della Nazionale, ma avere un punto di riferimento di prestigio, un’idea di Roma da raggiungere in caso di passaggio da sogno in finale deve rimanere.

Non sarebbe neanche male organizzare direttamente in campo neutro, ma qui subentra il problema del come: più che indicare una via mediana (un luogo a metà strada) a finale decretata (di difficile organizzazione, per i motivi di ordine pubblico di cui sopra e i tempi stretti), una soluzione interessante sarebbe invogliare sindaci e giunte comunali a candidarsi, a inizio anno, a ospitare la partitissima. Come avviene per la finale di Champions League – con le dovute proporzioni – significherebbe dimostrare al resto del paese capacità organizzativa, di coordinamento, di eccellenza.

Potrebbe essere l’occasione, poi, perché le grandi piazze tornino a sorridere, in tempi di retrocessioni, fallimenti, gioie (momentanee) e dolori costanti. Un po’ come certe partite dell’Italia, una finale di coppa nazionale al San Nicola di Bari porterebbe prestigio e campioni in una città da troppo poco tempo nella cadetteria, stimolando sogni e voglia di A: vuoi mettere vedere Vidal e Pogba, o Salah e Gomez, Higuaín e Hamsik, o Klose e Candreva?

Ecco, è soluzione utopica ma fa sognare. Resta l’allarme di una formula percepita come poco equilibrata, strana. Certo curiosa, non tanto per la scelta della città eterna ma perché lo stadio è quello in cui Lazio e Roma giocano ogni due settimane, con tanti saluti alla neutralità del fattore campo: sino a che biancocelesti e giallorossi non si doteranno di un impianto loro (ma le notizie non sono incoraggianti) l’ambiguità rimarrà.

A meno di cambiare sistema: tra realismo e utopia qualcosa andrà fatto, per far tornare la finale di Coppa Italia un evento degno di essere vissuto al 100% senza dietrologie e distinguo.