Home » Le palle di Parisse

Diciamocelo francamente, la retorica sul fatto che l’ambiente, il clima e la cultura sportiva del rugby siano migliori di quello del calcio ha stufato (e non poco). Perché, da concetto anche palesemente vero (basta poco però, viene da aggiungere), questo è ormai diventato un refrain talmente abusato che ora pare semplicemente una vuota formula liturgica, completamente priva del suo significato originale. E il rugby non lo merita.

Spiace infatti constatare che anche un mondo sanguigno, diretto, poco incline agli artifizi retorici come quello della palla ovale – che però di epica ne ha eccome – stia diventando sempre più prigioniero dei leit motiv da due soldi che tanto piacciono ai media nostrani, con buona pace della salute mentale (e di quella genitale, ammettiamolo) degli sportivi italiani che, almeno ogni tanto, vorrebbero un’informazione meno parruccona e più efficace.

L’universo del rugby propriamente detto, quello di campo (giocatori, allenatori, arbitri e via dicendo) rimane infatti ancora rustico, quasi grezzo, nella sua comunicazione col mondo, prima e dopo le gare, rendendo impietoso per esempio il confronto con un mondo del calcio – orrendamente – intriso di frasi fatte e formule ridondanti che vogliono dire tutto e niente («Gioco dove vuole il mister» cit. qualunque giocatore, «Rispetto per tutti, paura per nessuno» cit. chiunque in qualsiasi contesto quando si parla di avversari). È anche per via delle più che ripetitive dichiarazioni dei protagonisti nei terrificanti post partita calcistici che lo sfogo di capitan Parisse, dopo un’impresa come quella del Murrayfield, non suona arrogante o fastidioso ma doveroso e soprattutto comunicativamente fresco, piacevole da ascoltare.

Sentir dire in modo diretto che «Oggi eravamo in 23 da soli in campo, nessuno pensava che potevamo vincere, neanche il nostro staff e le nostre famiglie» e che la squadra «ha avuto le palle» è un po’ diverso da soliti luoghi comuni che i nostri media per primi sciorinano in quantità da overdose appena si parla non solo di calcio, ma proprio di sport in generale. Il capitano di un’Italia oggettivamente ancora incapace di poter competere con le migliori (ma non per questo priva di una sua dignità) ha rinfacciato alla sua nazione la scarsa fiducia in lui e nei suoi compagni, mostrando denti e orgoglio, oltre ovviamente a delle pal… ehm, degli attributi degni di un condottiero. D’altra parte che parola viene in mente quando si guarda Sergio Parisse? Solo quella.

Una frustrazione che nasce nel cuore dei nostri anche  per via dello scherno che spesso e volentieri si scatena (fare un giro su Twitter per credere) contro la Nazionale per la sua incompiutezza e la sua tendenza a rimediare batoste, probabilmente innescato per converso anche da quella stessa retorica pseudo-nazionalista per cui anche un 11-52 (Italia-Inghilterra del 2014), un 46-7 (Irlanda-Italia, 2014) o un 59-13 (Inghilterra-Italia, 2011) sono “una resa con onore” quando invece basterebbe ammettere che si tratta di disfatte.

Allo stesso modo, quella di ieri al Murrayfield, è stata un’impresa meravigliosa, al netto dei primi venti minuti – che, per inciso, amplificano la vittoria invece che sminuirla: reagire a un simile erroraccio e arrivare a vincere è ancor più meritorio, specialmente in territorio ostile.

Adesso, però, occorre fare attenzione: non siamo passati da essere brocchi a essere fenomeni, guai a chi si monterà la testa per aver sconfitto la Scozia sul suo campo. Perché in fin dei conti siamo la stessa squadra di prima, costantemente sull’uscio della top ten mondiale e con il sogno di lanciarci definitivamente nell’Olimpo dei grandi del rugby. Una buona ensemble che ancora vive ancorata al suo entusiasmo e alle sue paure, un eterno adolescente della palla ovale che vuole diventare grande, ma non sa se ce la farà e dubita costantemente di sé. Che le “le palle” ce le ha eccome ma che ha anche bisogno di un pubblico fedele, che ne possa meritare la costante esibizione.

Persino a costo di rimediare qualche calcio proprio lì.