Da principio erano le voci sugli stipendi. E sin lì, scattava la risposta paracadute “Vabbè, tanto i calciatori son ricchi”. Poi s’è saputo che neanche i dipendenti amministrativi della società percepivano più compensi. A quel punto, hanno iniziato ad andarsene i giocatori, in primis Cassano, (che a Madrid prendeva fior di stipendi senza giocare, ma evidentemente a Parma, non è riuscito a sopportare il contrario). A quel punto non c’è più stato limite. Siamo venuti a sapere che non c’erano soldi per il pullman sociale e che i ragazzi della Primavera non hanno l’acqua calda nelle docce. Finché, per l’impossibilità di pagare gli steward, non è stato necessario rinviare la sfida domenicale. Così, nel dì di festa, il terzino massimo Gobbi su twitter esternava la sua amarezza per la domenica vissuta da spettatore, mentre capitan Alessandro Lucarelli, uno che i campi di serie A li calca dal 1998 (quando esordì con la maglia del Piacenza), all’indomani dichiarava a Radio Rai, che per la prossima trasferta di Genova, i giocatori andrebbero pure con le proprie macchine.
Ma una volta i soldi c’erano e in quantità tale da convincere campioni come Veron e Crespo, Zola e Cannavaro, Thuram e Chiesa, Stoichkov e Asprilla, a trascorrere i migliori anni della propria carriera a Parma. Quando al principio degli anni ’90 il capitale finanziario entrò nel calcio, insufflando i patrimoni dei tradizionali presidentissimi di plusvalore svincolato dalla conversione aurea, il Parma fu una delle società in prima linea, legandosi ai marchi multinazionali. Un tratto di quei tempi è contenuto nel coevo “Splendori e miserie del gioco del calcio”, di Eduardo Galeano. “Un’altra azienda italiana, la Parmalat, che vende latte e prodotti derivati in quaranta paesi, ebbe un anno d’oro nel 1993. La sua squadra, il Parma, vinse per la prima volta la Coppa delle Coppe e in Sudamerica furono campioni il Palmeiras, il Boca, e il Penarol, tre squadre che portano il suo marchio sulle loro divise. Superando diciotto aziende concorrenti, la Parmalat si impose sul mercato brasiliano, proprio grazie al calcio mentre si faceva strada tra i consumatori di Argentina e Uruguay”. Finì con il famigerato crack dei Tanzi, al quale tuttavia il Parma calcistico, sia pure con una breve permanenza in B, sembrò poter sopravvivere.
La cacciata dal Paradiso della Serie A, al termine di una via crucis lunga una stagione non è una novità assoluta. Successe già ad altre squadre, in passato. Alla Fiorentina, in primis, al termine della stagione 2001-2002. Retrocessione sul campo e poi fallimento economico, dopo un campionato di sofferenze, che vide anche l’esordio di Mancini in panchina (e dell’attuale centrale del Torino, Moretti, in campo). E successe al Napoli, dopo il travagliato passaggio da Ferlaino a Corbelli. Ma anche alla Sampdoria, reduce dalle storiche annate della presidenza Mantovani. Si salvò solo la Lazio, in quell’epoca, grazie alla capacità contrattuale di Lotito, capace di ottenere un salvacondotto spalma – debiti.
E solo il caso di accennare che, per motivi differenti da quelli economici ma afferenti alla sfera giuridica, anche Milan, Lazio e Juventus hanno conosciuto l’aria secondomondista delle serie minori. Bacheche a mezz’asta, in attesa di riveder le stelle. Storie di calcio, in fondo, che anni dopo meriterebbero di essere raccontate. a ben vedere, non è nemmeno questo il primo problema.
Perché ad offendere non è tanto la conseguenza, forse il modo. Mai prima una partita era stata rinviata per debiti. Nemmeno di fronte alla morte, la serie A si era ritirata, come successe nel lontano ’49 al Grande Torino, dopo la sciagura di Superga, sostituito nel finale di stagione dai ragazzi del settore giovanile.
E forse, ancor più che il modo, a ben guardare è il tempo, che ferisce. Il tempo che presenta i conti, non in termini di parità di bilancio quanto di remunerazione emozionale. e centralità dello spettatore La fine di un sogno squarcia i veli come le foto dei Luna Park americani abbandonati, con quelle ruote panoramiche bloccate e le montagne russe arrugginite di noia. Sta passando l’idea che bisognerebbe impedire al Parma di ritirarsi, come se fosse davvero solo un problema di regolarità formale. Calato il sipario, via libera alla dolce morte dei ducali, ma a luci spente.
Davvero, tutto qui, quel che possiamo chiedere? All’appassionato, quel che manca sempre di più, da qualche anni, è il livello competitivo in campo, l’aderenza dei giocatori alla missione agonistica, il culto della domenica sportiva, e, sempre più spesso, l’autentica posta in palio (già un campionato a diciotto squadre, aiuterebbe molto in questo senso).
A Parma, si consuma l’ennesima scena di inanità quotidiana, che avvolge le istituzioni calcistiche. Mentre il campionato, sempre più sciocco di sale, si avvia ad una fine prematura, lasciando da qui a settembre prossimo il beneficio del dubbio giusto sui terzi e terzultimi posti, nessuno sembra avere le idee per confrontarsi con il collasso di un sistema, figlio di un modello economico che ha esaurito da tempo il circolante della bolla anni novanta e s’arrangia con gli assegni postdatati, in attesa delle sovvenzioni televisive.
Se la vicenda del Parma fosse un romanzo, racconterebbe il succedersi di generazioni, capifamiglia ed epoche storiche, successi, demansionamenti e cadute a precipizio, nel succedersi delle epoche storiche. Come in ogni saga che la letteratura ci ha consegnato. Alla fine, per un tempo che finisce, c’è sempre un’avventura umana da salvare. E forse è ora che la vicenda in stile “Buddenbrook” del Parma, riporti al centro proprio l’esigenza di ritrovare la centralità dell’esperienza sportiva, anche a costo di marginalizzare le rendite attese.