C’è pareggio e pareggio

Una piccola Coppa Italia, forse. Magari no, però un quarto della Serie A è sceso in campo ieri sera, e qualcosa vorrà pur dire. In barba alle vecchie idee per cui snobbiamo (snobbavamo?) questa competizione, l’Italia – Juventus a parte – s’è finalmente accorta che la sua dimensione questa è, specie dopo la “retrocessione” di una Roma troppo spavalda nel fare programmi in estate e ora sull’orlo di una crisi di nervi.

Con ordine, cinque partite. Cinque squadre e nessun incrocio “fratricida” (da regolamento). Se passano tutte il derby arriverà, prima o poi; ma è difficile: quattro su cinque hanno pareggiato, e un po’ di discorsi qualificazione restano in bilico. C’è però pareggio e pareggio e in alcuni casi è un mezzo passaggio del turno, in altri meno.

Il Torino, per esempio, sembrava in controllo. Dopo la paura (e l’erroraccio della difesa) iniziale, un grandissimo Maxi Lopez lo aveva aveva portato avanti, con coraggio e quel po’ di spavalderia e sicurezza di sé fondamentali in Europa. Come dire, non basta (non serve?) essere operai a livello internazionale, bisogna saper giocare a pallone; baricentro alto e via, senza paura: da chi sino a un anno e mezzo fa giocava per la salvezza è arrivata una prestazione maiuscola, nella serata degli oltre 700 mila euro di incasso. Ma alla fine il cinismo dell’Athletic ha fatto la differenza e il Toro, ingenuo e superficiale nei due episodi decisivi, ora dovrà farcela a San Mamés. Una vera e propria catàbasi, dove scrivere la sua nuova storia.

Nel frattempo la Roma, che in sede di sorteggio a inizio stagione non aveva paura di Bayern e Manchester City, e dopo il gol di Totti all’Etihad sembrava in rampa di lancio, sta naufragando. Non si è sbloccata manco stavolta all’Olimpico, in una giornata infausta per questioni extracalcistiche. Piccola grande crisi per Garcia, anche perché la squadra non trova più se stessa e a poco serve lamentarsi dell’uscita dalla Champions, o snobbare l’Europa che conta di meno: per bacheca, trofei e momento storico la Roma deve accettarsi e al ritorno si gioca parte della serietà del progetto, in uno snodo fondamentale per il futuro.

È andata meglio all’Inter, che fra balbettii e difetti ha portato via un pareggio in trasferta sempre comodo a questi livelli (difficile pensare a un Celtic corsaro a San Siro, ma mai dire mai), ma s’è portata pure appresso difetti, grossolani problemi, fragilità inaccettabili. Anche per come si era messa, questa partita bisognava controllarla, chiuderla; in particolare il momento storico del calcio scozzese è tutto tranne che scintillante e, con tutto il rispetto per il Celtic, la sua storia e Celtic Park, incassando tre gol così non si va lontani.

Il quarto pareggio del turno è il più dolce, avversario e fattore campo alla mano. Travolta in avvio dall’intensità di un Tottenham rinunciatario per formazione (Kane in panchina) ma concentrato e voglioso di ubriacare l’avversario, la Fiorentina ha retto l’urto, salvandosi quando meritava di star sotto di un paio di gol, impattandola per puro opportunismo sino al cambio di modulo. Dove ha messo sotto scacco Pochettino e i suoi, ha mandato in tilt il piano partita degli Spurs, cantiere ancora in corso, incapace di produrre calcio nella ripresa. In vista del ritorno al Franchi tutto è aperto, ma è un 60/40, come minimo. Un’unica nota viene però spontanea, specie dopo le polemiche di e su Arrigo Sacchi: all’uscita di Pasqual, 100% di stranieri in campo in maglia viola. Qualcosa andrà pur rivista.

Infine, se c’è pareggio e pareggio, la vittoria conta di più. Specie quando è rotonda, specie lontano da casa. Lo 0-4 sul campo del Trabzonspor è figlio forse dell’urna fortunata, ma non nelle proporzioni. Non perché dimostri chissà cosa, ma proprio perché regala a Benítez e ai suoi la certezza degli ottavi di finale, dopo quella della semifinale di Coppa Italia. Asso di coppe, Rafa: prima o poi il campionato arriverà, se deciderà di restare.

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Matteo Portoghese