Le montagne russe dell’incompiutezza

L’anticipo del sabato di Serie A ha fatto registrare l’ennesima buona prova di una Fiorentina in striscia positiva da ben sei turni (e che pare temibilissima anche quando applica il turn over) così come il capitombolo del Napoli di Benítez in quel di Palermo, per alcuni tratti letteralmente preso a pallonate dagli impudenti rosanero che, dopo il passaggio a vuoto di San Siro, hanno ammirato di nuovo – e per l’ennesima volta in stagione – un Franco Vázquez in stato di grazia sublime.

Cos’hanno in comune gli uomini di Montella e gli Azzurri di Rafa Benítez? Semplice, sono le costanti incompiute del campionato.

Se infatti il ruolo di apripista, dominatrice emotiva e tecnica di Serie A spetta alla Juventus, se quello di inseguitrice nettamente più forte delle altre 18 – che vorrebbe competere ma ancora non ce la fa – è invece della Roma (che, comunque, un’incompiuta pare volerlo diventare pur non essendolo in partenza, a giudicare dalle ultime prestazioni), la parte del guastafeste ambizioso ma non sufficientemente completo per ambire al tricolore se la spartiscono quasi equamente Napoli e Fiorentina, terza e quarta in classifica generale, così come lo erano anche 365 giorni fa. “Quasi” perché i partenopei, lo scorso anno, un trofeo l’hanno saputo portare a casa, superando in finale di Coppa Italia proprio i gigliati; inoltre – e non è un particolare di poca importanza – furono sempre i campani a finire terzi e, dunque, poter disputare il preliminare estivo di Champions League (poi fallito ma tant’è).

La morale comune vorrebbe che a parte chi vince, tutti siano ugualmente incompiuti. In realtà, direbbe Orwell, è che alcuni sono più incompiuti di altri e non c’è nulla da fare: questo Napoli e questa Fiorentina sono l’incompiutezza incarnatasi in due squadre di calcio. Certo, una delle ragioni può senz’altro essere la rosa non ancora del tutto adeguata a obiettivi e ambizioni, che magari elementi non completamente – o per nulla, nei casi peggiori – all’altezza degli altri titolari, campioni o giocatori potenzialmente decisivi più spesso in infermeria che in campo, capitani che dovrebbero trascinare e invece piombano in abissi di mediocrità e così via. D’altra parte si ha la sensazione stessa di un lavoro fatto a metà proprio scorrendo i parchi giocatori di entrambe le compagini: come può Borja Valero dialogare con Rosi? e Higuaín certamente non parla la stessa lingua calcistica di Britos, ci sono universi di differenza. Se a tutto ciò aggiungiamo un allenatore (per quanto bravo o stimato che sia) che ogni domenica cambia troppo oppure troppo poco, il quadro tecnico diventa completo.

Certo, quando queste due rappresentanti di un “vorrei ma non posso” che, in realtà, pare attanagliare l’intera Serie A (e dunque essere un problema più generale che non locale), si esprimono sui loro massimi livelli possibili possono anche essere decisamente spettacolari. Peccato che però, puntuale come una cambiale scaduta, ecco apparire il tonfo inatteso, l’inciampo clamoroso, la caduta di faccia. Quanto spesso abbiamo sentito magnificare il Napoli dopo un paio di vittorie di fila per poi sentire processi sommari e molto superficiali dopo una sconfitta o un pareggio intenro deludente? Quante altre volte abbiamo notato grandi elogi a Montella e al gioco dei suoi salvo poi assistere a balbettii incomprensibili e rese incondizionate di fronte a squadre decisamente alla portata?

Nel non lontano giorno dell’Epifania la Viola cadeva infatti a Parma sotto i colpi di una compagine che già allora era più morta che viva, ieri i partenopei hanno ricevuto una sonora lezione da Iachini e i suoi sgherri, capaci di migliorare persino il pirotecnico 3-3 dell’andata: entrambi sono tipici esempi di come, presto o tardi, Fiorentina e Napoli si squaglino di fronte a una difficoltà magari inattesa ma nemmeno insormontabile. Non importa quanto bene possa aver fatto la squadra prima e quanto ne farà dopo il capitombolo: l’esistenza stessa di questi inciampi è la prova sistematica che al Franchi e al San Paolo si vive di exploit più o meno lunghi e che la metaforica scure di un momento più buio scintilla nell’oscurità, pronta certamente a colpire (anche se non si sa quando).

Insomma, una schizofrenia francamente desolante per due squadre che, nemmeno due anni fa, investirono parecchio nel mercato estivo – e non tanto per arrivare al terzo posto, bensì per mettere nel mirino lo scudetto, poche balle. Invece, oggi come lo scorso anno, devono fronteggiare l’amaro destino di chi già a novembre, miracoli a parte, è praticamene fuori dalla lotta per il titolo e quindi si ritrova a specchiarsi nei suoi difetti, nelle sue angosce e nelle sue paure senza nemmeno l’ambizione di un successo. Certo, si rimane ben superiori alla maggioranza delle altre di A ma, al contempo, troppo al di sotto di chi invece lotta per vincere davvero: un orrido limbo fatto di una continua altalena di prestazioni, emozioni e risultati.

È triste ma quanto mai opportuno ricollegarci al discorso che ieri faceva l’ottimo Matteo Portoghese sull’abbassamento del livello del nostro campionato nonché della sua decrescente competitività con l’estero: Napoli e Fiorentina ne sono l’esemplificazione. Ossia, se una volta c’erano le “grandi”, oggi ci sono squadre grandiosamente – talvolta meravigliosamente – mediocri, dove l’efficacia e la cattiveria agonistica troppo spesso lasciano il campo a difetti e paure, a lacune e imperfezioni. In una parola, all’incompiutezza.

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Giorgio Crico