Un dribbling mozzafiato, una pennellata infilata sotto l’incrocio dei pali, un salvataggio sulla linea, un rigore parato o una corsa a perdifiato nella metà campo avversaria condita dall’urlo finale della folla. Le maggiori suggestioni del mondo del pallone si intersecano – e legano – in modo indissolubile a piccole grandi giocate rimaste nella mente e nel cuore degli appassionati. Gesti tecnici prodotti da semi-sconosciuti o grandi calciatori che hanno fatto stropicciare gli occhi di interi popoli, innalzando il football a religione laica di continenti e paesi. In pace come in guerra. In regimi democratici e sotto dittature più o meno sanguinarie. Dalla Belle Époque all’epoca di Blatter, Platini, Tavecchio e Lotito.
Grandi campioni protagonisti in campo e fuori, riconosciuti come semi-dei e icone pop dalle masse. Siano esse della bassa padana o della provincia più remota della Russia. Del Lancashire o della Normandia. Così come le piccole realtà artefici ad ogni latitudine di miracoli quotidiani e imprese titaniche da consegnare agli annali.
Alla mente rimbalzano in modo prepotente le storie del Gretna (società scozzese di un paesino di 3000 anime) sconfitto (ai rigori) in finale di Coppa di Scozia nel 2006 dagli Hearts of Midlothian o quella del Calais, che riuscì quasi nell’impresa di conquistare la finale della Coppa francese partendo dalla quinta serie, perdendo con un dubbio rigore contro il glorioso Nantes nel maestoso scenario del “Saint-Denis”. Piccole realtà, bacini di tifosi simili a quelli del basket e del volley, ma tanta passione e voglia di emergere.
L’alone di magia avvolge questo mondo periferico e ci rimanda con la memoria all’Ascoli di Costantino Rozzi e al Pisa di Romeo Anconetani. Quando il calcio era uno sport confezionato per il popolo e veniva vissuto in modo profondo senza assurde restrizioni o divieti polizieschi. Anche quello”insignificante” di provincia. Quello che non conta nei piani alti. E disturba i grandi manovratori.
E chi non ricorda il Milwall che spaventò il Manchester United degli invincibili di Sir Alex Ferguson? O del Getafe (quarta squadra di Madrid con lo stadio sempre desolatamente vuoto) della stagione 2007/08 che si battagliò l’accesso in semifinale col grande Bayern di Hitzfeld? Il palcoscenico da serata degli Oscar amplifica le gesta e pone l’accento sul calcio minore, da sempre snobbato dai signori dei vertici, ma verace e profondo.
Identitario e campanilistico, in Italia come altrove. Scolpisce nella memoria partite e date, vivendo in simbiosi con comunità e personaggi. L’Alaves di Vitoria – pur non vincendo la Coppa Uefa di Dortmund contro il mitico Liverpool – ha scritto una delle pagine più folli e indelebili della storia del gioco, perdendo 5-4 e uscendo dal campo tra gli applausi di tutti. Da una città basca conosciuta soprattutto per il basket ad un’altra del Lancashire rinomata per la squadra di rugby. Il Wigan del patron Dave Whelan ha scalato in rapida successione le gerarchie del football d’oltremanica, alzando al cielo la prima (e unica) F.A. Cup della storia nel 2013, contro il Manchester City dei petroldollari e dei campioni. Da cenere a furore. A volte anche il brutto anatroccolo diventa principe.
E per questo che una salvezza in Lega Pro e una qualificazione in Champions di un paesino di 40000 individui (a proposito, l’Auxerre del leggendario Guy Roux in tal senso ha rivoluzionato il significato di “piccola” nell’universo francese) valgono come imprese da consegnare ai posteri. Per la serie: c’eravamo ieri per la storia, ci siamo – oggi – per la nostra gente. E per la maglia. Anche lontano dalle luci delle ribalta e dal clamore dei media.
Scrutiamo l’orizzonte e allarghiamo i nostri confini, restando basiti nel constatare come nel nostro calcio racconti epici del genere siano del tutti sconosciuti. Snobbiamo la Coppa Nazionale riducendola a una “Final Eight” tra le solite note, cancelliamo le tradizioni rinnovando la forma e mai la sostanza, “annientiamo” le società cardine dell’intero movimento per far spazio all'”ingombrante” peso dei diritti televisivi. Preferiamo il dio denaro alla vera essenza dello sport.
Le recenti dichiarazioni “rubate” di Claudio Lotito ne sono la prova lampante. I burattinai del nostro pallone, coadiuvati da quelli dei grandi club del vecchio continente, viaggiano spediti verso la Superlega Europea. Sognano un Real Madrid-Bayern Monaco o un Barcellona-Manchester United ripetuto dieci volte l’anno, una lega in modello Nba senza retrocessioni e con la spettacolarizzazione di ogni singolo gesto portata all’estremo.
In questo mondo stellare spazio per Carpi, Latina e Frosinone non può esserci. Restano le briciole economiche e una pacca sulle spalle dei ras di turno. Agli ultimi romantici del pallone, invece, qualche nitido ricordo e pagine ingiallite – ma solo materialmente e per l’usura del tempo – della finale disputa davanti a 80000 spettatori con tutto il paese riversatosi in massa all’appuntamento. O il biglietto dell’ultima gara tra i professionisti. Sbiadito solo nei caratteri, ma vivo più che mai nella mente e nel cuore di chi lo possiede. Perché possono “rubare” tutto a tutti, tranne l’anima a chi la possiede.